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Agresti: «Grazie a noi smisero di finire in mare Ma serve una soluzione»

Michele Nannini
Agresti: «Grazie a noi smisero di finire in mare Ma serve una soluzione»

Flavio Agresti negli anni Settanta sollevò il problema dello smaltimento «Nessuna proprietà ha mai fatto ricerche tecnologiche per eliminare i fanghi»

23 ottobre 2021
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Michele Nannini

SCARLINO. La questione dei fanghi rossi si trascina nella piana di Scarlino praticamente dal 1970 quando il costruendo stabilimento dell’allora Montedison era quasi pronto per entrare a regime.

Ad amministrare il comune collinare era allora Flavio Agresti, fino allo scorso anno presidente provinciale dell’Anpi che ricostruisce tutta la prima fase della vita dell’azienda che dopo numerosi passaggi da qualche anno è di proprietà della multinazionale Venator.

«Nel 1970 la costruzione della fabbrica era quasi completa – ricorda Agresti – venne chiesta l’autorizzazione alla messa in esercizio dell’impianto e ci accorgemmo che lo stabilimento avrebbe avuto la necessità di scaricare tutti i giorni 3mila tonnellate di residui acidi ferrosi in mare, con lo scarto caricato su due navi che avrebbero raggiunto le acque vicino alla Corsica. Nacque in quegli anni la denominazione di “fanghi rossi” perché il mare diventava proprio di quel colore. Ci fu una lotta molto dura con l’azienda per cercare soluzioni alternative. Un primo traguardo venne raggiunto con l’impegno da parte della Montedison di costruire entro cinque anni un impianto che avrebbe riciclato i rifiuti, presi al momento dello scarico e ricondotti in testa al ciclo produttivo; alla fine seppure fossero scarti di produzione si trattava comunque di materie di discreto valore economico. Così, in attesa della costruzione di questo impianto, in accordo con la Regione venne deciso di adottare una serie di misure per abbattere il carico inquinante come ad esempio la neutralizzazione dell’acido con la cosiddetta “marmettola” che avrebbe prodotto dei gessi neutri. Era una dimensione ancora tutto sommato ridotta e facilmente gestibile anche dal punto di vista paesaggistico».

Da lì a qualche anno però tutto il mondo industrializzato si sarebbe trovato nel bel mezzo della crisi energetica che colpì soprattutto il petrolio e di riflesso anche il sistema che era allo studio per l’impianto di Scarlino.

«Mentre erano in corso in America gli studi per approntare il procedimento industriale di bonifica dei fanghi arrivò la crisi che bloccò il progetto – continua Agresti – l’impianto pensato infatti avrebbe utilizzato per funzionare proprio il petrolio rendendo il ciclo produttivo di Scarlino fuori mercato con costi insostenibili e con l’acido solforico maremmano praticamente invendibile e quindi assolutamente non competitivo a livello commerciale. E il problema dei gessi rossi da situazione transitoria e temporanea diventò una questione mai più risolta. Un traguardo però venne raggiunto perché grazie alla nostra battaglia in tutta l’Europa venne vietata la pratica dello scarico a mare dei fanghi rossi, di conseguenza nelle altre nazioni il problema venne risolto alla radice riconvertendo la produzione con l’utilizzo del cloro che non produce scarti. Così ovunque la tecnologia ha permesso di superare il problema mentre a Scarlino, dove nacque in origine la questione, è rimasto il carico di gessi rossi cui trovare sistemazione».

Dal 1995 Agresti non si occupa più della vita amministrativa locale, ma un’idea se l’è comunque fatta: «Nessuna proprietà che si è succeduta in quello stabilimento ha mai realmente svolto una adeguata ricerca tecnologica volta a trovare una soluzione per eliminare i fanghi rossi – conclude Agresti – c’è stato poco impegno scientifico. Bisogna risolvere il problema alla fonte altrimenti lo smaltimento degli scarti di produzione rimarrà una spada di Damocle che penderà in eterno sull’impianto di Scarlino».

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