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La mafia oggi parla sottovoce: il caso della figlia di Riina tra minacce velate e memoria criminale

di Mario Neri
La mafia oggi parla sottovoce: il caso della figlia di Riina tra minacce velate e memoria criminale

Dalla Sicilia alla Toscana, il potere del nome. “Siamo sempre gli stessi di un tempo”, diceva agli imprenditori per estorcere denaro

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FIRENZE Non è solo una frase nostalgica. È una minaccia sottile, un richiamo a un passato che pesa ancora come piombo. «Noi siamo sempre gli stessi di un tempo, le persone non cambiano». Una firma. Certe storie non sembrano chiudersi mai. Cambiano i luoghi, i volti, le forme. Il cognome no. Quello resta. E parla da solo. Maria Concetta Riina, primogenita di Totò, il capo dei capi. Un’ombra che torna. Non a Corleone, ma nella provincia che non dovrebbe aver paura. Quella toscana.

Il linguaggio dell’intimidazione

Nel suo lessico affettivo - messaggi, vocali, silenzi carichi di inquietudine - c’è tutta la grammatica dell’intimidazione di Cosa Nostra che non ha più bisogno di bombe né di kalashnikov, scrive il giudice del Riesame che ne ha appena disposto il carcere con l’accusa di estorsione e tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso ai danni di due imprenditori, uno senese, l’altro pisano. Bastano poche frasi. La memoria di un’identità che si autorappresenta. Le ha dette a Paolo, imprenditore di Colle Val d’Elsa, che vent’anni fa aveva fatto affari con il marito della donna, Antonino Ciavarello, un passato tra gadget e ricami con la "Mania Max" di Corleone, anche lui finito nell’ordinanza di arresti con la stessa accusa. I rapporti erano finiti nel 2008. Dal 2010, silenzio. Poi, nell’estate del 2024, il ritorno. Un numero WhatsApp, un’icona chiamata "Cyndellera Man". Ciavarello scrive dal carcere di Rieti, dove sconta un’altra condanna. Ha un cellulare non autorizzato. Chiede al senese quando può sentirlo. Lo fa anche la Riina il 4 agosto. Raccontano guai economici, parlano dei figli, del carcere, del bisogno. Messaggi vocali, WhatsApp, telefonate.

La pressione gentile

La Riina insiste, implora, si lamenta, benedice. Per il Gip era solo una questua, per il pm Antonio Nastasi e il giudice il linguaggio non è mai solo quello della necessità. È insinuante, che non domanda: ottiene. Evoca, ammicca al passato. Un rigurgito, un subdolo avvertimento. «Larvate minacce», scrive, che fanno leva su quel cognome evocativo. L’imprenditore ci prova a resistere. Dice di non avere denaro. Dice che non può. Ma intanto, il 25 settembre, compra un pacco da 45 chili di generi alimentari in un supermercato Eurospin. Spende 350 euro. Glielo spedisce. È un primo cedimento. Non basta. Il 1° ottobre sale in macchina. Al suo rifiuto, la Riina gli ha appena scritto. «Paolo mi stai dando una grossa mazzata... Che il buon Dio ci aiuti». La divinità dovrebbe proteggerlo. Ma da cosa? Colle Val d’Elsa-Roma: cinque ore di viaggio. Arriva sotto casa della figlia del boss. Resta sette minuti. Le consegna mille euro in contanti. Lo tiene nascosto a tutti, anche alla moglie. Agli investigatori racconterà che voleva solo guardarla in faccia. Era andato lì per chiudere, dice. Intercettato, ammette: «Se la denuncio per estorsione, casca tutto». Si capisce tutto. Capisce tutto anche la moglie. «Eravamo terrorizzati. Ho temuto per la sua vita». L’accusa è estorsione aggravata dal metodo mafioso. Una tecnica strisciante, silente. Non una parola violenta. Anzi, una gentilezza insistente. Pressione. Familiarità esibita. Una fiducia determinata nella forza del nome: Riina. Per i giudici, «la fama criminale e la spietatezza di Totò Riina - si legge nell’ordinanza - travalicano i confini dell’isola e sono in grado, ovunque in Italia, di coartare la volontà delle vittime». Questa è la cifra. Quando Maria Concetta dice «noi siamo quelli di sempre», l’imprenditore sa. Sa chi erano "quelli di sempre". Sa dov’è stato vent’anni prima. Ricorda una cena a Corleone, nella casa di famiglia con Ninetta Bagarella, la moglie di Totò. Fuori una palazzina modesta. Dentro, uno sfarzo che stonava, che intimorisce. La madre della moglie, appena uscita, disse: «Ma come vi è venuto in mente di portarmi qui?».

Le benedizioni che fanno paura

La procura antimafia di Firenze parla chiaro: non serve un coltello per essere mafia. Serve solo il modo. Il Tribunale del Riesame è d’accordo. "Metodo mafioso" vuol dire anche questo: non minacciare, ma far capire. Usare il passato come garanzia del presente. È bastato dire "Tony è in carcere". Bastava il cognome. E poi c’è l’altro imprenditore, Filippo, di Casciana Terme. La Riina gli chiede aiuto. Lui prende tempo, le offre 200 euro. Lei rifiuta. È troppo poco. Anche in quel rifiuto - un’umiliazione, non una supplica - c’è la cifra del potere. Non trattano, comandano. Le parole non hanno bisogno di enfasi. Scrivono i giudici: «Il cognome Riina richiama alla mente un potere criminale ancora attivo, anche se non più strutturato. I figli, i generi, i legami: è questo il nuovo volto di una mafia che non ha più territori ma ha ancora memoria». E memoria significa timore. La madre dell’imprenditore senese chiede ai carabinieri di non lasciarlo solo. Il codice con sui istillare paura è chiaro. Si fa con benedizioni, con messaggi affettuosi, con frasi ambigue. «Ti vogliamo bene come un tempo», «so che farai ciò che puoi», «che Dio ti protegga». A volte basta una card: «Godetevi le piccole cose. Arriverà il giorno in cui scoprirete che erano immense. Buongiorno». Da brividi, perché dietro c’è la voce della storia.

La nuova mafia: la biografia come arma

Quella di una donna che non ha bisogno di presentazioni. Figlia del boss dei boss. Moglie di un uomo che, da poco estradato da Malta, anche da detenuto, dirige e insiste. Che le dice "pressa, pressa". La mafia cambia pelle. Ma non cambia metodo. Le sue radici sono nella memoria, nel ricatto che non si vede. Che si insinua anche quando sembra solo un messaggio su WhatsApp. Non è un’estorsione con la lupara. È un’estorsione con la biografia. E la biografia - se è quella giusta - fa ancora paura.

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