Il Tirreno

Toscana

Il caso

Pestato davanti a scuola a Prato, l’esperto: «La violenza c’è sempre stata, ma vi dico perché ora fa più paura»

di Ilenia Reali
(foto di repertorio)
(foto di repertorio)

La riflessione fra la condanna dell’episodio e il rischio allarme: «Qui una dimensione di violenza tipica dell’adolescenza»

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PRATO. Non parliamo di baby gang. La gang ha regole precise, prevede l’opposizione a un altro gruppo, un riferimento territoriale. Quanto accaduto a Prato è un atto di violenza (qui cosa è successo). Fa ordine sui concetti da utilizzare, Paolo Grassi, antropologo urbano, ricercatore del dipartimento di Scienze umane dell’Università di Milano-Bicocca. Per capire meglio chi stia parlando merita dire che è uno dei maggiori esperti italiani di violenza giovanile con ricerche in Repubblica Dominicana, Guatemala e Italia su spazio urbano e violenza, gang e gruppi di strada, processi di rigenerazione urbana e marginalizzazione socio-economica.

Il video

Sul caso di Prato trova, da una prima analisi del video, «una dimensione di violenza tipica dell’adolescenza». Per Grassi c’è un «periodo della nostra vita in cui ci confrontiamo in una dimensione culturale di violenza che poi reprimiamo, nascondiamo ma questi comportamenti ci sono e ci sono sempre stati» con la differenza che oggi «ci sono telefonini e social e gli episodi rimbalzano con più facilità».

Per il ricercatore non significa voler sminuire l’episodio che è «allarmante» ma la responsabilità che «oggi colleghiamo a comportamenti acquisiti attraverso i contenuti dei social, dei videogiochi, della musica che ascoltano i ragazzi, anni fa lo attribuivamo allo stesso modo alla televisione». Tradotto: non possiamo incolpare i social media. Sarebbe superficiale e comunque in ogni periodo c’è un’evoluzione tecnologica che potrebbe essere responsabile dei nostri comportamenti.

Cosa guardare

«Mi sento di dire – aggiunge Grassi – che è necessario guardare l’episodio della sua specificità altrimenti fomentiamo allarmismo. Non significa sminuire questo atto di violenza che, sottolineo, è da condannare e da analizzare andandone a capirne i motivi in profondità ma senza per questo volerne creare un’interpretazione più grande di quello che realmente è».

«L’adolescenza è un’età tosta, in cui ci si confronta. Poi la violenza la nascondiamo, e ci mancherebbe, perché siamo in una società in cui giustamente non ci piace ma dobbiamo saperla riconoscere».

Ansie sociali

L’antropologo tende a «smontare ansie sociali che stanno circolando parecchio nel Paese» e che «parlano molto di una società che è cambiata, con figli di chi ha un background migratorio che non riconosciamo e che ci fanno paura» e che ci porta a contestualizzare episodi come quello accaduto a Prato in una cornice diversa da quella che realmente è.

Tra l’altro in una fase in cui «questi ragazzi stanno alzando la testa, cominciano ad esigere un posto nella nostra società». «I ragazzi, dagli anni Sessanta in poi, hanno sviluppato in più situazioni e in più contesti dei comportamenti, pescando dalla cultura dei genitori o da quella egemonica, costruendosi stili e formazioni culturali alternative a quella dominante. È un processo tipico dei giovani: mi metto in relazione e negozio rispetto alla cultura che mi ospita per rimettere le cose al loro posto».

La professoressa

Un’interpretazione che va a cozzare con un’idea di gruppi organizzati, seppur giovanissimi, e che trova conforto nel fatto che non si tratta di episodi che si sono ripetuti negli ultimi tempi a Prato, perlomeno con questa violenza. E che forse, pensare alla baby gang di origine cinese non è altro che una di quelle “ansie sociali” che il ricercatore “smonta”. Ricordiamo che in quell’istituto superiore è abbastanza normale che la violenza avvenga tra ragazzi con origini cinesi dal momento che gli iscritti lo sono per la stragrande maggioranza. A confermare l’interpretazione di Paolo Grassi è anche Silvia Giagnoni, professoressa di Scienze della comunicazione alla John Cabot University. Lei, pratese, lo fa partendo dalla conoscenza della realtà della città toscana e da un passato negli Stati Uniti trascorso da ricercatrice proprio dei fenomeni migratori.

«O si tratta di una mancanza di consapevolezza dei ragazzi di quanto si sta facendo – commenta – oppure è un bisogno di farsi notare. La violenza viene esercitata come modo per rendersi visibili, di una ricerca di attenzione». «Altrimenti – aggiunge Giagnoni – non lo fai davanti a una scuola, in pieno giorno, dove è chiaro che sei riconoscibile e hai elevate possibilità di essere registrato. È un’evidente emersione di un disagio».

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