Il Tirreno

Toscana

L’intervista

Sebastiano Calleri: «La formazione è scarsa o inadatta, ecco perché sul lavoro si muore»

di Barbara Antoni
Sebastiano Calleri: «La formazione è scarsa o inadatta, ecco perché sul lavoro si muore»

L’accusa del responsabile salute e sicurezza della Cgil nazionale: il silenzio di governo e imprese

17 maggio 2024
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Due morti sul lavoro in due giorni. Una ferita che brucia per la Toscana, già duramente provata negli ultimi mesi. Dalla tragedia nel cantiere di Esselunga in via Mariti a Firenze a quella della centrale idroelettrica di Suviana, al confine con l’Emilia Romagna, e non sono le sole. Una scia di sangue ininterrotta: è proseguita martedì 14 maggio con l’artiere livornese Maurizio Vannucci, 57 anni, deceduto a seguito del colpo ricevuto al torace da una cavalla nel centro di allevamento ippico di Crespina Lorenzana e – mercoledì 15 – con Nicola Corti, 50 anni, operaio alla Kme di Fornaci di Barga, rimasto incastrato in un macchinario. «L’ennesima sconfitta del sistema della sicurezza sul lavoro in Italia – è il commento amaro di Sebastiano Calleri, responsabile salute e sicurezza della Cgil nazionale –, che ha una legge avanzata ma poco praticata. Troppo scarso l’investimento su formazione e sicurezza da parte delle aziende; preferiscono investire sul lavoro povero e mal retribuito, contraddistinto dalla precarietà. Anche stavolta, davanti a due morti, c’è stato il silenzio. E siamo in Toscana, una regione “avanti”. Come è accaduto , del resto, all’indomani dei cinque operai morti per il crollo nel cantiere di Esselunga a Firenze e dei cinque caduti a Casteldaccia nel Palermitano mentre lavoravano nelle fognature. Mai sentita la voce delle imprese né quella del governo».

Perché, secondo lei?

«Perché su queste vicende e su questa materia non interessa fare la propria parte. Piuttosto, si gioca al ribasso».

Ribasso su cosa?

«Prendiamo ad esempio il caso di Casteldaccia. I lavoratori erano scesi in quello che si definisce “ambiente confinato”. Esiste una legge specifica per chi svolge lavori di questo tipo: i lavoratori devono essere muniti di dispositivi di protezione, devono avere una formazione adeguata, devono misurare il livello della tossicità dell’ambiente. Gli operai sono morti perché a loro nessuno aveva spiegato quali regole dovevano osservare».

Come si ferma questa catena di morti sul lavoro? Qual è la proposta della Cgil?

«Da molti anni presentiamo una piattaforma a tutti i governi che si sono susseguiti: l’hanno ignorata tutti quanti. Bisogna prendere il toro per le corna, non si può aspettare più. Devono essere previste sanzioni per le imprese dove non si lavora in sicurezza, servono più controlli e un aggiornamento costante. L’intervento che proponiamo insieme alla Uil è articolato in dieci punti».

In cosa consistono?

«Come dicevo, chiediamo più controlli nei luoghi di lavoro: per farli servono più ispettori, che allo stato attuale sono pochissimi. È necessario, inoltre, che le banche dati esistenti parlino fra loro. Nel sistema attuale, la banca dati dell’Inps non parla con quella dell’Inail, entrambi gli istituti non possono confrontare i propri dati con quelli delle Asl dei singoli territori. Questo fa sì che non sappiamo mai quanta gente è al lavoro, né quanta si fa male sul lavoro. L’Inail non ha un’anagrafe degli iscritti agli infortuni, sono iscritte solo le aziende. In un anno l’Inl (ispettorato nazionale del lavoro, ndr) fa solo ventimila visite nelle aziende in tutta Italia, perché non abbiamo sufficienti ispettori».

Invece la formazione?

«Tutti i governi ne parlano, ma se ne fa poca e di bassa qualità. Aspettiamo il prossimo accordo Stato-Regioni che riprogrammi la formazione. Intanto le statistiche ci dicono che il 90 per cento dei lavoratori che si infortunano in Italia non hanno fatto formazione alcuna per i macchinari che usano. Anche per questo motivo molti rimangono vittima di incidenti proprio il primo giorno di lavoro. Del resto, per legge, la formazione deve essere svolta entro sessanta giorni dall’assunzione, non esiste un obbligo di impartirla prima che il lavoro inizi. Dobbiamo anche aumentare le rappresentanze di delegati alla sicurezza nei luoghi di lavoro: dove esistono, si verificano meno infortuni».

Quali sono le aziende più a rischio?

«Le aziende sane e virtuose ci sono, ma sono poche, e soprattutto quelle grandi. Il tessuto più a rischio è quello delle piccole e medie imprese sotto i dieci addetti: è lì che si verifica il numero maggiore di infortuni e morti sul lavoro, di malattie professionali. Ma l’attenzione del governo non c’è. L’unica proposta formulata è quella della patente a punti per le imprese edili».
 

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