Il Tirreno

Toscana

L'intervento

La cultura del possesso dura a sparire

di Paola Balducci*
La cultura del possesso dura a sparire

Introdurre nuovi reati e pene? Non è la repressione che risolve il problema

03 giugno 2023
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Ennesimi femminicidi. Non si fa in tempo ad esprimere lo sdegno, il dolore per l’efferata violenza su una donna che subito dopo un’altra vittima si aggiunge all’elenco sempre più ricco di donne assassinate.

Il copione è sempre lo stesso con qualche variante: la prepotenza, il senso del potere dell’uomo nei confronti di una donna che ha avuto il malaugurato destino di condividere con lui un lungo o breve percorso di vita. La prima reazione della politica è ricorrente: introdurre nuovi reati, aumentare le pene. Ma non è la repressione che può eliminare il drammatico problema. La violenza di genere non ha colore, non ha età, non ha classe sociale. Si poggia tutta sulla cultura del possesso che pervade ancora una fascia enorme della popolazione maschile.

Pensiamo agli ultimi due raccapriccianti episodi: un barman di un prestigioso hotel e un appartenente alle forze dell’ordine. Il primo protagonista di un mondo del lusso, della leggerezza, dell’arte di preparare i cocktail più particolari per i clienti più esigenti e l’altro una persona che di norme di diritto ne conosce per mestiere. Dovremmo di più concentrarci sulle dinamiche che spingono gli uomini ad eliminare fisicamente la donna che nella loro mente è diventata l’impaccio della propria vita, come nel caso del barman che stava per occultare scientificamente qualsiasi traccia del corpo: come se la vittima non fosse mai esistita. Ritorna il tema del possesso: la donna mi appartiene, posso anche eliminarla.

Il discorso riguarda ancor oggi una cultura non recisa del primato-predominio maschile. E già dalla prima infanzia si manifesta la differenza. Pensiamo ai giochi per l’uno o l’altro sesso, ai colori rosa rigorosamente femminile e azzurro rigorosamente maschile. Le frasi pronunciate in famiglia e non solo del tipo “non fare la femminuccia” o “questo è un gioco da maschi, gioca con le bambole”. O le battute sessiste nei capannelli di soli uomini.

E qui sorge spontanea la domanda: come mai ancora oggi chi commette reati così gravi occupa la fascia di età dai diciottenni fino ai quarantenni? Com’è stato evidenziato da Fabio Roia, un magistrato esperto di questi crimini, «quello che manca è la condanna sociale» e «anche tra i giovani c’è il predominio maschile».

Sono quindi, prima di tutto, le famiglie delle nuove generazioni ad insegnare ai figli il rispetto reciproco che è premessa di una educazione sentimentale fatta di amore e non di possesso. Il percorso non è breve ma si deve partire da qui.

*Avvocata, docente Luiss ed ex membro del Consiglio superiore della Magistratura
 

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