Il Tirreno

Toscana

25 novembre

Il pregiudizio contro le donne s’insinua nel cuore dello Stato

di Ilaria Bonuccelli

26 novembre 2022
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Un paio di settimane fa la Corte Europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia perché, quando affronta casi di violenza di genere, si schiera dalla parte dei violenti, invece che delle vittime. 

Dal 27 maggio 2021, è la quarta volta che lo Stato viene condannato per la stessa ragione, anche se ogni volta trova modi originali, diversi per violare i diritti delle vittime. Che poi sono i diritti su cui si fonda l’Unione Europea: il diritto alla vita, alla non discriminazione, alla riservatezza e tutela della vita privata e familiare.

La prima condanna e la seconda condanna dell’Italia, da parte della Corte Europea, hanno riguardato due vicende (e quindi due sentenze) toscane: lo stupro di gruppo della Fortezza da Basso e la strage di Scarperia. Nel primo caso, l’Europa, ci ha detto che le sentenze dei giudici italiani sono “intrise di pregiudizi”, perché nei casi di stupro ancora si processa la vittima, passando al microscopio le sue abitudini sessuali, la sua “promiscuità”, perfino il fatto di essere cresciuta in una famiglia disfunzionale o di cavalcare tori meccanici e mostrare le mutande a tutti. Nel secondo caso – un bambino assassinato, una madre rimasta invalida, il padre condannato a venti anni – l’Europa ci ha accusati di non aver protetto una famiglia in grave pericoloso, malgrado tutti i segnali della strage in arrivo.

Nel caso più recente, la strage è stata solo evitata. L’umiliazione della vittima no. Una mamma maltrattata, picchiata, chiede allo Stato di togliere la potestà genitoriale all’ex compagno violento e drogato. Chiede allo Stato di impedire al padre di vedere i figli perché l’uomo è pericoloso, ma lo Stato sospende a lei i diritti sui figli perché la considera una donna cattiva, ostile nei confronti dell’ex. Un’arpia che si vuole mettere fra padre e bambini. Salvo poi accertare che l’uomo continua a drogarsi, gli incontri protetti sono un disastro e così via. Allora interviene l’Europa: la mamma ha ragione. Lo Stato ha violato i diritti fondamentali suoi e dei suoi figli. Ma attenzione, non è una questione di leggi. In Italia di leggi ce ne sono abbastanza. È un problema “culturale”. Ce lo dicono tutti. I giudici europei, il Consiglio d’Europa. La nostra commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio che da ieri ha iniziato l’iter per diventare Bicamerale.

Un problema culturale, di pre-giudizio, che affligge anche chi deve valutare i casi di violenza: chi deve giudicare quanto sono pericolosi, se c’è bisogno di misure di protezione (quasi sempre negate o insufficienti) per le vittime. Chi deve emettere le sentenze. Se poi sono sbagliate o ridicole, pazienza. Tanto paga lo Stato. E paga poco: l’ultimo conto della Corte Europea all’Italia è stato di 7mila euro. Perché questo è il principio che vige: chi valuta male, non risponde dell’errore. Neppure se costa la vita a una donna o a un bambino. E all’Italia va bene così. Per lo Stato le donne sono ancora cittadine di serie B. Questa volta lo dice la legge. Una donna ammazzata dal marito vale un indennizzo di 50mila euro (60mila se ha un figlio). Invece una persona assassinata dalla mafia o dal terrorismo ne vale 200mila. Perché le donne non sono uguali agli uomini neppure in morte. Alla faccia dell’articolo 3 della Costituzione.  

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