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la ricostruzione

Moby Prince: 7 domande e un rebus da risolvere

Mauro Zucchelli
foto Massimo Sestini
foto Massimo Sestini

Mai così tanta attenzione come adesso sul caso: è la volta buona per ottenere verità e giustizia

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Bisognerebbe lasciar parlare la foto di Massimo Sestini che vedete qui sopra: a 30 anni di distanza da quel mercoledì notte, niente racconta la sciagura più grave della storia della marineria civile italiana in tempo di pace nell’ultimo secolo.

Niente: perché gli oblò che si stagliano nella scena nera sono gli stessi oblò che avevano consentito fin da quasi subito a Valentino Rolla, terzo ufficiale della petroliera Agip, di capire che no, non era una bettolina quella cosa che avevano incastrata a 30 metri da lì, ma era un traghetto. Niente: perché quelle finestre di luce raccontano anche quel che sta succedendo. Cosa? Una ripresa d’attenzione per la battaglia civile di Loris Rispoli e di tutti i familiari, a partire dai figli del comandante, Angelo e Luchino Chessa.

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La ripresa d’attenzione sta anche nel Palazzo: dopo lo scossone della commissione del Senato, ecco che si sta mettendo in piedi qualcosa di analogo sul versante di Montecitorio, con una mobilitazione che parte dai parlamentari livornesi Andrea Romano (Pd), Francesco Berti (M5s) e Manfredi Potenti (Lega) e potrebbe trovare una sponda d’attenzione anche nel senatore Gregorio De Falco (ex M5s), anche lui sentito dalla commissione d’inchiesta per un prezioso contributo in quanto capitano di fregata (ve lo ricorderete anche per quel “vada a bordo cazzo!” urlato al comandante della Costa Concordia).

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Non è tutto: c’è in ballo anche il terzo atto dell’inchiesta giudiziaria. «Stavolta siamo molto fiduciosi nella magistratura», ha detto al Tirreno nei giorni scorso Angelo Chessa, annunciando che presto saranno presentati al procuratore capo Ettore Squillace Greco nuovi incartamenti da parte dei comitati dei familiari delle vittime.
Di più: sono usciti in questi giorni nuovi libri, a cominciare da quelli di Federico Zatti (UnoMattina) per Mondadori e di Vincenzo Varagona (Rai Marche) per Vidya. Ma possiamo mettere nel conto le iniziative in vari municipi, compreso Milano. Oltre a speciali dedicati in trasmissioni Rai come “Che giorno è”, “UnoMattina” o “ItaliuaSì”, gli approfondimenti di Rai Storia, il ricordo sulle onde radio nel corso della trasmissione “Inviato speciale” (RadioUno), senza contare gli spazi su RaiTre grazie alla testata regionale. Ma l’emblema forse è quel “termometro” che è il numero di citazioni su Google: il “Moby Prince” me ha 199mila, ben più di altre grandi stragi come piazza Fontana (143mila) o di Ustica (134mila). Sorpassato solo dalla “strage di Bologna” (485mila). Ci sono voluti trent’anni, ma forse è la volta buona. —

La nebbia su misura
È l'unico puntello che tiene in vita la verità ufficiale?

La presenza della nebbia è l’interrogativo simbolo di questa vicenda: la “verità” giudiziaria ha certificato che c’era e anzi è stata la causa fondamentale, le indagini della commissione parlamentare d’inchiesta a cavallo fra il 2015 e il 2017 hanno affondato questo dogma, in verità traballante fin dal primo momento. Ma le testimonianze non sono univoche: fra quanti erano lì sul posto c’è chi segnala la presenza della nebbia e chi invece la nega decisamente. Ad esempio, lo ripeteva ancora pochi anni fa Valentino Rolla, terzo ufficiale della petroliera, che chiedeva «solo di essere dimenticato». Il marinaio del rimorchiatore Neri, Gianni Veneruso, invece ha sempre ribadito che era fumo, non nebbia».

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Da non trascurare la consulenza degli ammiragli Giuliano Rosati e Giuseppe Borsa per conto del pm Antonio Giaconi: indica un guasto agli impianti della petroliera che avrebbe causato una fuoriuscita di vapore, cosa che sembra quadrare con la testimonianza di Paolo Thermes e Roger Olivieri, che dall’Accademia navale vedono un «alone biancastro» («ma la nebbia proprio no», anche se curiosamente verranno catalogati fra i testimoni pro-nebbia).

Da un punto di vista logico, c’è da tener conto del fatto – lo sottolinea Enrico Fedrighini nel suo libro-inchiesta pubblicato dalla casa editrice di “Famiglia cristiana” – la nebbia è indispensabile per tenere in piedi la sentenza di primo grado: se si leva la nebbia, non resta altro che l’improvviso impazzimento della plancia di comando del traghetto. Florio Pacini (ex dirigente Navarma) usa l’ironia toscana: è una nebbia “fantozziana”, sta sulla petroliera e basta… —

Il timone va in tilt
Ma cosa c'era da scansare in mare?

Neanche sullo stato del timone c’è una qualche verità condivisa: lasciamo pure perdere il tentativo di manomissione da parte del personale Navarma dopo la collisione (tutti assolti perché era impossibile forzare in quel modo l’apparato). Sta di fatto che alcuni periti giurano che era funzionante e altri ripetono che è andato in tilt poco prima dell’impatto fra il traghetto e la petroliera.

Per Giovanni Mignogna, ad esempio, è rimasto bloccato mentre il Moby cercando di “dribblare” qualcosa in mare. Ammettiamo per un attimo che ci sia qualcosa da evitare: ma cosa? Ipotesi uno: la “solita” bettolina (c’è da ricordarsi che è stata trovata una cisterna aperta, cosa gravissima, e una manichetta attaccata). Ipotesi due: una chiatta legata ai traffici delle navi Usa (e qui a spy story spazia fino a includere perfino regolamenti di conti fra 007 israeliani e agenti palestinesi in incognito). L’ipotesi tre arriva dall’avvocato Bruno Neri, anch’egli fra le parti civili: un peschereccio.

È una tesi che non convince il pm Antonio Giaconi: nella richiesta di archiviazione scrive che o c’è nebbia e allora non si vede cosa evitare o non c’è nebbia e allora nessuno può immaginare che si voglia finire contro una petroliera per evitare un barchino. —

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Interessa solo l'Agip
Nessuno si chiede qual è l'altra nave: vietato cercarla?

È forse comprensibile che Renato Superina, comandante della petroliera Agip, le abbia inventate di tutte per calamitare su di sé tutta l’attenzione dei soccorritori. Questo vuol dire una cosa sola: evitare che qualcuno si metta in testa di andare a cercare l’altra nave coinvolta. Praticamente lo confessa quando grida di «non scambiare lei per noi». Ma non c’erano iceberg in rada e di fronte a una collisione fra navi, se ne è stata trovata solo una (l’Agip Abruzzo), come si fa a non chiedersi quale sia l’altra nave e che fine abbia fatto? Certo, il terrorismo islamista non aveva attaccato l’Occidente in casa, però lì davanti c’erano forse cinque (o sette) navi militarizzate Usa di ritorno dalla guerra del Golfo.

Eppure, per quanto possa apparire incredibile, è andata proprio così. Eppure il Moby Prince era l’ultima nave uscita pochi minuti prima e non se ne erano mosse altre. Eppure un istante prima dal traghetto era stata chiamata Livorno Radio e poi non aveva più risposto. Eppure, secondo quanto emerso in commissione parlamentare, il personale Navarma già aveva l’idea che si trattasse del loro traghetto mezz’ora prima che gli ormeggiatori Mauro Valli e Villi Mattei lo identificassero.

Una risposta ha provato a darla l’avvocato Carlo Palermo a nome di un gruppo di familiari: quella notte il porto era in mano agli americani per i loro scopi ed era meglio non farsi troppe domande. Eppure ne sarebbe bastata una: dov’è il Moby che è uscito ora? —

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Le polizze e il patto
Le assicurazioni degli armatori si alleano: perché?

A poco più di due mesi di distanza dalla sciagura le compagnie armatoriali Navarma (per il Moby Prince) e Snam (per l’Agip Abruzzo) si mettono a un tavolo per firmare un patto di “non aggressione”. E questo prima ancora di sapere se la petroliera era in zona vietata e prima ancora che la magistratura chiarisse le responsabilità. Anzi, per usare i termini della commissione dei senatori, a tambur battente «gli armatori e le loro compagnie assicuratrici si accordarono per non attribuirsi reciproche responsabilità, non approfondendo eventuali condizioni operative o motivazioni dell’incidente attribuibili ad uno dei due natanti». Su qualcosa del genere insisteva in commissione, poco prima della morte per incidente stradale, anche Altero Matteoli, senatore “nero” proveniente dalla provincia più “rossa”: «Le norme stabiliscono che una nave abbandonata dall’armatore diventi rifiuto e che lo smaltimento sia a carico dello Stato. In questo caso, invece, c’è una richiesta da parte dell’armatore, che non abbandona il relitto e chiede al tribunale di poter tornare in possesso del relitto e, poi, a sue spese, fare quel che poi ha fatto». Matteoli non ne trae chissà quale teorema ma «i relitti vengono mantenuti per decenni quando sono in corso i processi. In questo caso, no: c’è stata un’accelerazione». —

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L'autopsia che non c'è
Gli esami mai fatti: a bordo per quanto sono sopravvissuti

L’ha detto perfino la sentenza d’appello (che ha lasciato tutti indenni ma per prescrizione): non è stata una idea geniale affidare i primissimi accertamenti d’inchiesta agli stessi ambienti – l’autorità marittima di allora – che rischiavano di trovarsi nei guai. Non lo è a maggior ragione se di fatto lo staff del medico legale, un team guidato da una figura del calibro del professor Marino Bargagna, dice che la morte è sopraggiunta per tutti nel giro di 20-30 minuti non perché l’ha certificato attraverso gli esami sui cadaveri bensì perché era la ricostruzione di senso comune. Tradotto: c’era un’enorme pressione dei familiari e si è badato solo a dare un nome ai morti, non a capire come era avvenuto il decesso. L’ha acclarato la controindagine effettuata, su mandato della commissione parlamentare del Senato, da Gian Aristide Norelli (università di Firenze) e Elena Mazzeo (università di Sassari). Insomma, sono morti perché sono morti, e di cosa saranno mai morti se c’era fuoco ovunque...

Insomma, è il “teorema della palla di fuoco”: il Moby come il “ventre” del Vesuvio. Peccato il professor Marcello Chiarotti mostri la forte differenziazione nella saturazione dell’emoglobina per spiegare quant’è stata diversa la loro sorte. Peccato che il perito Gabriele Bardazza segnali che come in alcune zone fossero rimasti intatti perfino i tovaglioli. Peccato che l’ex dirigente Navarma Florio Pacini indichi che erano rimaste intatte le ampolline dell’anti-incendio. Peccato che l’unico sopravvissuto di quella notte, l’ex mozzo Alessio Bertrand, racconti di aver girato a lungo dentro il traghetto: e pensare che la teoria ufficiale dice che si era salvato perché solo in quel preciso angolino non era arrivata la morte... —

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L'esplosivo delle stragi
Scovate sette tracce, poi tutto sparisce: a chi fa comodo?

È ricordando le sette tracce di esplosivo trovate a bordo del Moby Prince che Il Tirreno ha aperto l’inchiesta in otto puntate che ci ha accompagnato fino al 30° anniversario. Le aveva scovate il super-perito della Criminalpol Alessandro Massari dopo complesse analisi con il gascromatografo e con lo spettrometro di massa. Le sette sostanze sono le stesse che sono state ritrovate nello stragismo mafioso a cavallo fra il ’92 e il ’93.
Non è tutto. In quegli anni circola nel nostro Paese tanto esplosivo: colpa di quel che sta avvenendo nell’ex Jugoslavia alle soglie della guerra; colpa della fine di Gladio, l’organizzazione segreta anticomunista che aveva disseminato di armi e esplosivi tanti nascondigli (“nasco”). L’esplosivo potrebbe esser stato semplicemente nascosto a bordo, magari è bruciato anziché esploso: ha fatto comodo a tutti che cancellare dalla scena le sette tracce di Massari. —

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L'aiuto rifiutato
No a aerei e elicotteri dell'Aeronautica: perché quello stop?

L’ultima novità è un documento del comando operativo della Prima Regione Aerea datato ’94 che i familiari delle vittime leggono così: 1) i vertici della Capitaneria abbiano accettato di fare da parafulmine ma a prendere le decisioni era l’Alto comando periferico della Marina militare; 2) 17 minuti dopo la mezzanotte del 10 aprile l’Aeronautica si era offerta di intervenire ma era stata tenuta fuori. Per Angelo Chessa, figlio del comandante Ugo, una istituzione sul Moby, si può «accettare a malincuore che il caos abbia regnato nei soccorsi per 80 minuti». Ma dopo no: «Dopo aver stato scoperto che si trattava di un traghetto con 141 persone a bordo, non è comprensibile che non si sia mosso un dito per cercare di fare qualcosa per salvare quelle persone». E aggiunge: «Non è più un problema di disorganizzazione, è qualcosa di ben peggiore: possiamo soltanto dire che li hanno lasciati morire e lo sapevano». —

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