Il Tirreno

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«E ora cambiamo la legge Gelmini»

«E ora cambiamo la legge Gelmini»

«Contiene un eccesso di burocrazia, va semplificata»: sul Tirreno la prima intervista da ministro di Maria Chiara Carrozza, tra programmi e retroscena

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L’appuntamento è fissato alle 10 di sabato mattina, al bar Salza, nel cuore della città, a due passi dalla Normale e dal Duomo. Il ministro della Pubblica Istruzione Maria Chiara Carrozza ci aspetta, seduta ad un tavolo. Beve un cappuccino. Ci tiene a dirci che quella che segue è la sua prima intervista da ministro.

Le sue prime impressioni del ministero dell’Istruzione? «Buone. Personale e dirigenti disponibili e di grande competenza».
Emozioni? «Tante. Lì, sulla poltrona in cui ora siedo io, prima di me ci sono stati grandi personaggi. Da Moro a Spadolini. Da Tullio De Mauro a Luigi Berlinguer. Li voglio studiare bene. Cogliere i segreti e gli aspetti ancora attuali della loro attività».
Tra i suoi precedessori c’è anche la tanto contestata Gelmini. Da rottamare? «Per carità, non è un verbo che mi piace. Io preferisco il dialogo. La riforma Gelmini pecca ad esempio di un eccesso di burocrazia che va semplificata».
Il centrodestra ama la scuola privata. Sarà “guerra”? «Io sono espressione della scuola pubblica. È uno dei perni della Costituzione. Dopodiché guarderò ai risultati, non alle etichette».
Un passo indietro. Chi l’ha chiamata per fare il ministro? «Letta. Con un sms in cui mi invitava a portare a Roma il mio vestito migliore».
E lei? «Ho dato una sbirciata al mio guardaroba e in 5 minuti ho scelto un vestito elegante ma sobrio. Proprio come si raccomanda sempre Enrico: “Siate sobri”».
La persona a cui ha pensato quando Letta l’ha nominata ministra? «A mio padre Antonio Carrozza, professore di giurisprudenza, morto troppo presto. Sarebbe stato molto orgoglioso di vedermi ministro».
Programmi? «Prima voglio studiare, capire, e poi farò i programmi. Niente annunci. Anche in questo voglio essere sobria».
Ma avrà delle idee? «Che il futuro del nostro Paese lo si costruisce a scuola. Io non andrò a pietire soldi al ministro del Tesoro. E’ il governo che deve credere e investire nella scuola e nell’università. Basta con i ministeri ad personam. Credo nella collegialità del governo. Si vincerà o si perderà insieme».
La scuola italiana non gode una buona salute. «Non sono d’accordo. Nel suo complesso la nostra scuola è molto apprezzata anche all’estero. Ho avuto modo di conoscere molti insegnanti e mi sono parsi molto preparati».
Intanto aumenta il numero di studenti che non finiscono la scuola dell’obbligo. «Certo, la dispersione scolastica è un problema da affrontare».
Come? «Agli studenti vorrei dire di imparare a contare sulle proprie forze, ad avere carattere, a non mollare mai».
I punti di partenza non sono eguali. C’è, come si legge in Lettera a una professoressa, Pierino, il figlio del dottore, e Gianni, il figlio del montanaro...
«Non ho letto Lettera a una professoressa ma credo che la scuola debba essere più flessibile cercando di personalizzare i programmi di studi per permettere ai più bravi di sviluppare le loro capacità e a quelli meno dotati di non essere abbandonati a se stessi».
Lettera a una professoressa, uscita nel 1967, espresse una forte denuncia contro il classismo della scuola italiana. È così anche oggi?
«A partire dagli anni Settanta mi sembra che la scuola sia riuscita ad aprirsi anche agli stati sociali più poveri. Negli ultimi anni vedo però riaffiorare il tarlo del classismo. E’ un rischio che dobbiamo combattere».
Come la fuga dei cervelli?
«L’università italiana deve favorire le migliori condizioni, anche economiche, per i ricercatori, i talenti, ma non si può pensare che nel mondo globale uno debba fare ricerca sotto casa. Che i nostri cervelli vadano all’estero è un fatto positivo. Importante che il nostro sistema sia in grado di favorire anche il loro ritorno. Occorre scambio, contaminazione, visioni globali».
Flessibilità, mobilità, sono queste le sue parole d’ordine? «Anche.Nel senso che io credo nella mobilità sociale per cui il figlio del contadino deve essere in grado di diventare ingegnere, ma anche nella mobilità tra i Paesi per cui il ricercatore pisano va in Usa e quello americano magari viene da noi».
Un problema molto sentito nella scuola? «Molti insegnanti mi hanno evidenziato quello edilizio. Abbiamo scuole e istituti spesso fatiscenti».
Dalla scuola al Pd. Malato grave? «La situazione del partito è molto difficile e bisogna risolverla con il dialogo con gli elettori».
Che sono arrabbiati per come si è svolta l’elezione del presidente della Repubblica e per il governissimo. «Sul primo punto concordo con loro. Quando Prodi non è passato ho provato un sentimento profondo di rabbia, delusione e sconcerto. Il Pd, alla prova dell’elezione del Capo dello Stato, si è rivelato un coacervo di correnti e di capifazione, più che dare l’idea di un partito».
E il governo con il centrodestra? «Inevitabile. Io ero convinta della necessità di questa soluzione prima di diventare ministro. Ho vissuto lo stallo parlamentare e istituzionale. La gente, la nostra gente, reclamava un governo. Poiché in tentativo con Grillo era fallito, non rimaneva che superare la diffidenza nei confronti del Pdl e provare a siglare un accordo nell’interesse del Paese».
Fatto il governo, ora scatta la fase preparatoria per il congresso del Pd. Chi segretario? «Non mi interessano i nomi, ma un progetto unitario di partito».
Renzi? «Personalmente non lo conosco ma è stato leale prima e dopo le elezioni politiche».
Renzi, Letta, avanza una nuova generazione nel Pd? «Mi sembra inevitabile. In un partito ci devono essere i saggi e i leader che esprimono la parte attiva. Che hanno gli occhi giusti per guardare al domani. Mi è piaciuto molto papa Ratzinger quando si è fatto da parte perché ha ritenuto di non essere capace di leggere più il proprio tempo».
Dove ha sbagliato Bersani? «Io, politicamente, devo molto a Bersani che adesso ha la necessità di un certo tempo e distacco per capire gli errori che abbiamo commesso negli ultimi mesi».
Lei e Pisa. «È la mia città, ci vivo bene anche da ministro desidero mantenere solide radici con il il territorio».
Una città dalla doppia anima. La città che suoi centri di eccellenza esprime figure importanti della politica italiana - da Ciampi a Letta -, ma anche la città degli inamovibili. Due anime che non si parlano. Concorda?
«Sì, il problema di Pisa è la mancanza di dialogo, l’incapacità di fare squadra. Però avverto che qualcosa sta cambiando. Che anche qui sta per soffiare il vento del rinnovamento e del ricambio generazionale della classe dirigente».
Nomi? «Lasciamo perdere i nomi».
Ma un’idea? Che prospettive immagina per il futuro? «Pisa è una grande scuola. Prepara classe dirigente che poi se ne va via. Bisogna creare le condizioni perché i talenti sfornati dall’università, dalla Normale, dal Cnr e dal Sant’Anna possano dialogare con le istituzioni pisane. Solo così Pisa potrà crescere, rinnovarsi, diventare una città leader in Toscana e in Italia».
Però intanto a Pisa si riparte da Filippeschi. «Guardi che il sindaco ha il merito di aver iniziato un proficuo rapporto con il mondo accademico. Filippeschi ha capito l’importanza di un rapporto con le eccellenze pisane».
Chi comanda a Pisa? «Ci sono intrecci di relazioni tra i diversi assetti di potere. Il fatto è che mentre nell’università e nelle scuole di eccellenza c’è un forte ricambio, nella società pisana predomina la stagnazione, l’immobilismo. Ma, ripeto, il vento del cambiamento generazionale sento che sta per soffiare anche a Pisa».
Non le sembra di essere troppo ottimista? «Mi sembra che oggi il Paese soffra di un grave problema di consenso. Il voto questo ha dimostrato. La gente non capisce più la politica. E’ ostile. Per questo dico: o la nave della politica cambia rotta o affonda. In Italia come a Pisa». Finita l’intervista, sempre sorvegliata dalla scorta, irrobustita dopo la sparatoria del 28 aprile, il ministro Carrozza si dedica allo shopping. Entra ed esce dai negozi. «Devo comprarmi un po’ di abiti da ministro.Sobri, ma mi devo un po’ rifare il guardaroba», sorride.

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