Paolo Crepet: «A Natale spegnete il cellulare e state con il nonno». E suggerisce un gioco da riscoprire
Un nuovo spettacolo, “Il reato di pensare”, fresco di tappa in Toscana: «Contro il conformismo imperante»
Censura autoimposta, conformismo, omologazione: il nuovo spettacolo di Paolo Crepet, “Il reato di pensare”, andato in scena al teatro Verdi Montecatini Terme lo scorso 19 dicembre e con date previste in tutta Italia nel 2026 , sollecita le coscienze e affronta verità scomode. In nome della libertà di immaginare, e alla faccia dell’intelligenza artificiale.
Dottor Crepet, lo si può definire uno spettacolo il suo?
«Chiamiamolo pure spettacolo, anche se faccio di tutto perché non lo sia: sono fermo, seduto, non ho il microfono ad archetto ma un banalissimo microfono a gelato, ci sono le luci in sala, quindi non il palco illuminato e gli spettatori seduti nel buio. Insomma molto poco spettacolare. E poi, a differenza di tanti, non mi ripeto. Non solo ogni sera è differente, ma anche un evento con lo stesso titolo, preso dal mio libro “Il reato di pensare”, è differente da quello di un anno fa».
Perché?
«Perché il reato è cambiato, in modo grottesco. Siamo degli idioti e per questo abbiamo inventato l’intelligenza artificiale, una evidente condanna dell’intelligenza umana, che non va bene o non è sufficiente. Il dibattito sul rapporto tra intelligenza artificiale e mondo del lavoro per me è interessantissimo: una rivoluzione copernicana, per cui in molti nel giro di un anno perderanno il proprio lavoro. I giornali già ora si leggono solo in digitale ma non sempre sono adatti a questi nuovi strumenti: non sono cambiati. E poi la scuola: secondo Musk presto non sarà più necessario andarci, perché ci saranno percorsi personalizzati online. C’è un allarmante monopolio di potere spartito tra sei persone, qualcosa di mai visto in precedenza, e nessuno contrasta questa situazione. Le due signore più potenti d’Italia, Meloni e Schlein, parlano forse di questo? Confindustria si esprime? Tutti fanno finta di niente. Andiamo verso i 10 miliardi sulla terra e camperemo 130 anni: ma come impiegheremo quel tempo, se non si lavora? E non parlo di questioni economiche, ma di cultura: che mondo sarà?»
Si scaglia anche contro il politicamente corretto.
«Fa parte del silenzio imbarazzante di oggi, una sorta di gabbia culturale che ci allena a non reagire. Non credo che sia così chiaro nella testa delle persone: la cultura woke, che è nata per ben altri motivi, visto che significa “sveglio”, invece non mi pare stia svegliando nessuno, anzi. È l’impero del silenzio e del sonno. Gli intellettuali sono tutti contenti di evitare il problema o dicono cose incomprensibili. Quindi io sono lì a sollevare le coscienze».
Nello spettacolo precedente parlava di mancanza di coraggio.
«Certo, il coraggio è fondamentale, i toscani lo sanno bene: Giovanni da Verrazzano non era certo Giovanni da Houston. Quando dico queste cose percepisco sconcerto nella massa: primo perché le persone non sono abituate ad ascoltare (i comici hanno le battute, i cantanti la scaletta, quindi se per qualche motivo ti alzi e perdi un pezzetto non succede niente). E poi perché ormai c’è solo la popolarità basata sul consenso, che è falsa. Mancano rispetto e dignità, ma nessuno ha il carisma necessario a richiederlo».
Come si fa per mantenersi autonomi?
«Bisogna uscire ritti da casa, comprare libri e ragionare con la propria testa. Ma se un bambino cresce chiedendo alle chat qualunque cosa, come potrà diventare una persona solida e intera? La selfish community, la comunità chiusa in se stessa e che rende autosufficienti è terribile. In proposito sto scrivendo un nuovo libro, che sarà una bomba. Del resto questo è un momento per certi versi anche proficuo. Non vorrei sembrare distruttivo, sono dissacrante, ma penso che per splendere si debba bruciare. Le persone escono dallo spettacolo invogliate a cambiare, anche nelle piccole cose. Per esempio adesso che arriva Natale comprate gli shangai (il gioco dei bastoncini, ndr), spegnete i cellulari e giocateci con il nonno. Perché così c’è uno scambio vero».
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