Il Tirreno

L'intervista

Giuliana Sgrena al Festival del giornalismo del Tirreno: «Me la sono andata a cercare? Ho fatto solo la giornalista»

di Ilenia Reali

	Giuliana Sgrena sarà ospite del Festival del giornalismo del Tirreno a Bibbona (foto Stick)
Giuliana Sgrena sarà ospite del Festival del giornalismo del Tirreno a Bibbona (foto Stick)

L’inviata di guerra sarà protagonista della prima serata (12 settembre) dell'evento che si tiene in piazza del Forte a Bibbona: «Mai messo il velo, è un’offesa alle donne che rischiano la vita per toglierlo»

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Ha viaggiato in tanti paesi del mondo, ha intervistato numerosi leader islamisti ma non ha mai indossato il velo, tranne in Iran e in Afghanistan al tempo dei talebani. «Ritengo l’esibizione del velo da parte di molte giornaliste, quando nessuno glielo impone, come sulle copertine dei libri o in collegamento dalle terrazze degli hotel, un atteggiamento glamour ed esotico, che non rispetta le lotte delle donne per liberarsi di quel fardello». Lo scrive sul suo “Me la sono andata a cercare” Giuliana Sgrena, giornalista e inviata di guerra, rapita e rilasciata in Iraq. Viva, coperta dal corpo di Nicola Calipari, l’agente segreto, che perse la vita durante la liberazione di Sgrena, ucciso da soldati statunitensi.

«Non me la sono andata a cercare, facevo il mio lavoro. Fare giornalismo significa andare in un posto, cercare notizie, verificarle. Anche nei luoghi di guerra», racconta Sgrena che domani alle 21,30 nella piazza del Forte di Bibbona sarà ospite del primo festival del giornalismo organizzato dal Comune di Bibbona e dal giornale Il Tirreno. Giornalismo e fake news, la verità dei fatti è l’ambizioso titolo di quello che aspira ad essere un talk di approfondimento, uno sguardo aperto sul mondo e sull’informazione. Per capire, per sapere, per scegliere come informarsi.

Sgrena, come ha capito che avrebbe fatto la giornalista?

«Avevo fatto il liceo linguistico, erano anni in cui ero impegnata nel movimento studentesco, ci occupavamo anche di vari temi internazionali. Quando ci furono le ultime condanne a morte del franchismo, nel 1975, scrissi un pezzo. E da lì ho cominciato a scrivere ma sempre senza pensare di fare la giornalista. La mia vita si è sempre intrecciata tra politica e scrittura, mi sono trasferita a Roma da Milano e sono andata a lavorare a “Pace e Guerra”. Da lì nel 1981 ho cominciato a fare la giornalista. Gavetta lunga. Dopo una pausa dai contratti alla Rai, feci una sostituzione al Manifesto e lì sono rimasta».

Quale incontro le ha chiarito che era quello che voleva fare?

«Mi ha dato la chiave per raccontare l’area mediterranea che seguivo un’amica algerina, Cherifa Bouatta, psicologa, femminista e portavoce dell’Osservatorio sulle violenze contro le donne in Algeria. Mi spiegò che se volevo avere un rapporto con loro non potevo pensare di fare la musulmana più di loro. “Noi - mi disse - siamo musulmane ma anche laiche e tu devi essere quella che sei, senza cambiare. E allora noi potremo avere un rapporto franco, sincero”. Può sembrare un banalità quell’insegnamento è stato fondamentale. E per questo ho intervistato leader islamici, molto radicali, senza essermi mai messa il velo. E non mi hanno mai chiesto di coprirmi. Per le donne di quei paesi che lottano contro l’imposizione del velo, ad esempio le iraniane, vedere giornaliste occidentali che lo indossano, è un’offesa nei loro confronti che rischiano la vita proprio per toglierlo. Espressamente chiedono che anche le politiche non si presentino velate per dare sostegno, dignità, alle loro lotte».

Qual è la cosa più importante che ha fatto per affermare dei diritti?

«È l’impegno a fianco delle donne algerine. Negli anni Novanta per loro è stato un periodo durissimo, quando gli islamisti stavano per prendere il potere, quelle che più rischiavano erano le donne a cui si impediva di lavorare, di uscire e nelle moschee c’erano le liste di proscrizione con l’elenco di chi doveva essere colpito. E molte in quelle liste erano le donne femministe. Queste donne che lottavano, così determinate, mi avevano colpito molto e costruimmo un comitato di solidarietà in Italia. Questo impegno andava al di là del lavoro giornalistico anche se il mio lavoro mi permetteva di dare loro voce sul giornale. Quando sono stata rapita molti paesi arabi hanno fatto manifestazioni di solidarietà nei miei confronti. Sono stata ricambiata nel mio essere vicina a queste donne».

Qual è la priorità oggi nel mondo e cosa serve per fare qualcosa, per incidere?

«Di fronte alle emergenze internazionali ci si sente oggi molto impotenti. Mi riferisco alla Palestina per cui c’è una mobilitazione di civili che cerca di portare avanti la lotta dei palestinesi che sono completamente sopraffatti dalla violenza, da un’arroganza senza limiti. Prendere la gente per fame, per sete, uccidere bambini che vanno a chiedere aiuto è un’atrocità. Non sono però le iniziative che possono avere successo. Si dovrebbe interrompere per Israele ogni tipo di fornitura di armi e i rapporti economici. Non capisco perché si mettano sanzioni alla Russia, giustamente, ma non a Israele che sta facendo un vero e proprio genocidio. Dobbiamo continuare a manifestare, mobilitarci su questi temi. Oltretutto un’attenzione, un sostegno alla popolazione palestinese potrebbe anche liberare, soprattutto le donne, dall’imposizione di Hamas. Soprattutto a Gaza. Ma non solo. È un groviglio enorme ma su cui dovremmo impegnarci perché ci troviamo difronte a una sorta di nuovo olocausto».

Chi oggi è una giornalista che lei consiglia di seguire?

«Una giornalista free lance che ogni tanto sostituisce la corrispondente di Sky, da Gerusalemme, Claudia Cappellini. Giovane e molto, molto informata. Efficace. Non è un nome famoso, è pressoché sconosciuta ma il suo è il modo di fare giornalismo nei conflitti».


 

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