Premio Ghinetti, la giornalista Giuliana Sgrena: «Ho visto tante guerre, ora cerchiamo la pace»
La giornalista rapita vent’anni fa in Iraq: «L’informazione è a rischio ma ho fiducia nei giovani»
SAN MINIATO. Venti anni fa il suo rapimento in Iraq e la sua drammatica liberazione con la morte dell’agente del Sismi Nicola Calipari. Ieri, in giorni segnati da una crisi internazionale senza pari, ha ricevuto a San Miniato il premio Ghinetti. «Ricevere un premio è sempre un piacere. Ancor più se in Italia: la maggior parte li ho ricevuti all’estero. Poi ho letto la biografia di Roberto Ghinetti e mi sono ritrovata in lui: come me è stato nel Pdup (il Partito di unità proletaria politicamente attivo a cavallo negli anni ’70, ndr) e ha fatto tanta gavetta. Ragioni in più per ricevere questo premio 20 anni dopo il mio rapimento in Iraq», sono le parole di Giuliana Sgrena, storica inviata di guerra e firma del Manifesto. E di guerra e pace si è parlato ieri in occasione della 31ª edizione del premio che il Comune di San Miniato e la redazione de Il Tirreno di Pisa e Pontedera hanno istituito nel 1994 in memoria del giornalista morto nel 1993, a soli 32 anni, per una grave malattia.
Come vive questi giorni in cui spirano venti di guerra?
«È una situazione molto preoccupante. Ci sono dinamiche che vanno oltre quello che abbiamo vissuto fino ad adesso. Da una parte la guerra di Putin in Ucraina, dall’altra il riarmo europeo e Trump».
Cosa pensa dell’Ucraina?
«Non eravamo abituati alle immagini che ci arrivano. Tutto ciò che vediamo è militare: dagli spari, agli addestramenti. Come se bisognasse alimentare la necessità di continuare la guerra in un pericolosissimo “avanti fino alla vittoria”. Bisognerebbe impegnarsi di più per la pace. Avendo raccontato molte guerre, vedere i massacri quotidiani, la distruzione di interi quartieri, è una cosa che mi fa malissimo e immagino che la gente non ne possa più. È stato così in tutte le guerre, mi hanno sempre raccontato questo ovunque».
Ci sono, però, un aggredito e un aggressore?
«In questa guerra non si può non stare dalla parte dell’Ucraina. È normale e logico. Ma questo non dovrebbe impedire di approfondire. Non si va più, o non si vuole andare a vedere cosa pensano le persone che vivono sotto le bombe. Non si parla di chi fugge perché non vuole combattere. Non c’è una visione pacifista».
Perché?
«Il problema è il giornalismo embedded (il giornalismo “incorporato” dei corrispondenti assegnati alle unità militari, ndr) che si sta diffondendo oltre la narrazione della guerra. L’istituzionalizzazione dei giornalisti embedded ha portato a una visione stereotipata dei fatti. Nei telegiornali, per esempio, non c’è più un’intervista. Tutti i politici dicono quello che vogliono, ma questo non è giornalismo, questo è propaganda».
Anche in tema di riarmo?
«Del riarmo europeo si parla superficialmente. Fino a ieri abbiamo sottovalutato che Putin potesse usare l’arma nucleare contro l’Ucraina. Ora temiamo la usi contro di noi. Io non mi fido di Putin, ho sempre avuto paura che la usi, ma questo non significa che dobbiamo riarmarci spendendo 800 miliardi».
Tutto è, però, legato anche alle politiche Usa.
«Trump è una mina vagante. È un folle. Come si può dire una cosa come “tutti vengono a baciarmi il culo”. Bisognerebbe dire che delira».
Qual è, secondo lei, lo stato dell’informazione in Italia?
«Non c’è più un servizio pubblico degno di questo nome. Ciò che vediamo in Rai è vergognoso. Non c’è informazione e cultura. Non c’è più nulla e questo è un impoverimento del paese. Peggio mi sento se penso ai social, dominati dall’espressione dei sentimenti peggiori. È l’effetto degli algoritmi: tu contribuisci a diffondere la posizione che ti piace, la diffondi ai tuoi amici che la diffondono ad altri amici col risultato che, alla fine, tutti riceviamo notizie in una sola direzione, senza contraddittorio e confronto».
E i giornalisti?
«Da una parte c’è il problema della precarietà, che rende ricattabili, dall’altra il fatto che il valore del tuo pezzo, della tua attività, è dato dal numero di clic che ricevi sui social e dal dare prima di tutto la notizia, anche senza fare verifiche. E questo vale anche per le agenzie di stampa, che dovrebbero essere la fonte primaria».
Poi ci sono i giovani di oggi, che sensazione le danno?
«Io sono entusiasta. Soprattutto i ragazzi delle scuole professionali sono più reattivi».
Quale, tra le domande che le hanno fatto, l’ha più colpita?
«Mi hanno posto la domanda che io stessa mi pongo ogni giorno: come riuscivo a comunicare con i miei rapitori. Uno parlava poco inglese, l’altro non lo parlava mentre io ho studiato l’arabo classico. Mi interrogo ancora oggi su come facevo, eppure ci riuscivo».
Qualcuno liquida la sua vicenda con “se l’è cercata”, cosa risponde?
«Penso che fosse un rischio che correvo ogni volta che facevo il mio lavoro in luoghi di guerra. Da prima rispondevo “no, non me la sono cercata”. Ora dico sì, ma facendolo ho raccontato l’Iraq, la Somalia, l’Afghanistan, l’Algeria.
È stato un lavoro importante e ora ho deciso di scrivere un libro che avrà come titolo “Me la sono andata a cercare”».