Il Tirreno

Il commento

Il cibo al potere: dalla vita del "5 e 5" al successo dell'Antico Vinaio. E voi, "con mollica o senza"?

di Fabrizio Bocca

	Un’appetitosa immagine del “5e5”, la torta e il pan francese tipici di Livorno e Tommaso Mazzanti de “L’Antico Vinaio” di Firenze
Un’appetitosa immagine del “5e5”, la torta e il pan francese tipici di Livorno e Tommaso Mazzanti de “L’Antico Vinaio” di Firenze

Siamo un Paese che ha fame e che divora ormai cibo compulsivamente sui social: delizia dopo delizia, video dopo video

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Nel mandar giù l’ultimo boccone di un “5e5” seduto con mia moglie su un muretto davanti a uno dei santuari della torta a Livorno, ho capito che con soli 2,70 euro possiamo salvare noi stessi e le nostre anime dall’omologazione gastronomica, dal finire col diventare noi stessi cibo per Tik Tok e i social in genere. Scadere cioè in un puro atto meccanico di ganasce che stritolano ingredienti, a tritare un mix indefinito che finisce nello stomaco. L’importante, ovvio, è mandare tutto in diretta Instagram.

Nel “5e5” rivedo e ascolto gli anni ’60/’70, apprezzo i profumi di allora, sento operai e portuali discutere del Pci, bagnanti caciaroni, ragazzini che giocano e fanno chiasso, rumore di zoccoli, traffico di strade in tilt, il fracasso di motorini, l’odore della legna che brucia nel forno e la puzza di scappamento delle macchine. E soprattutto Nada che canta “Ma che freddo fa”. Era estate e faceva un caldo insopportabile, ma vabbè…

Capisco che sia più un problema di psicanalisi che di cucina in senso stretto, so che il “5e5” crea dipendenza ma non ha certo proprietà allucinogene e comunque i funghi messicani non ci vanno. Credo anche che quelli con cui ho fatto la fila, in fin dei conti, avessero solo fame e pensassero unicamente se metterci dentro la melanzana e prenderci o meno un bicchiere di spuma. Ma il cibo di strada questo è, una relazione intensa col mondo che ti circonda, un rito che scatena sentimenti, evoca ricordi. Probabilmente molti provano lo stesso per il panino col lampredotto a Firenze, per il “pani ca’ meusa (milza)” a Palermo, per il pane di Genzano con la porchetta a Roma e via così. Certi crescioni e cacciucchi potremmo metterli a mo’ di stemma sui gonfaloni dei nostri Comuni.

Lo dico perché di fondo e a differenza di quel cibo che nutre il tuo stomaco ma soprattutto parla, come il “5e5”, alla tua anima, siamo un paese che ha fame e che divora ormai cibo compulsivamente sui social. Intendiamoci, non soffriamo la fame, non mangiamo perché veniamo fuori dalla guerra come nel ’45, abbiamo fatto però della fame uno show ossessivo e il cibo è diventato protagonista soprattutto per la sua scandalosa ed esagerata abbondanza. Ben al di là di tantissimi cuochi e trasmissioni di cucina che ormai occupano la tv da decenni. Dai tempi di Veronelli e Ave Ninchi… Sui social adesso, in perfetto mood americano, è tutto in formato 3XL almeno. Affettiamo pagnotte e apriamo panini per metterci dentro ogni ben di dio, in maniera compulsiva e spesso random: burrata, mozzarella, stracciatella, prosciutto, porchetta, mortadella, pomodori secchi sott’olio, olive snocciolate semplici e ripiene di peperone o mandorle, salame, pancetta fritta o piastrata, finocchiona, mozzarella di bufala e non, tonno, provola fresca o stagionata, pecorino, parmigiano a scaglie, tartufo e crema di tartufo, alici a banchi… E mi fermo qui. Tanto non esiste qualcosa che oggi non possa essere messa lì dentro, non c’è una ricetta, non esistono due panini uguali. È l’operazione di farcitura e costruzione che fa spettacolo e crea videodipendenza. Quel susseguirsi di splatt, splash, gulp, tié, sbam, crunch: e cioè di creme spalmate a cucchiaiate, fette di salumi sdraiati sul pane a etti, olive calate a decine, proteine a chili, lipidi a torrenti. E infatti ingrassiamo di conseguenza.

Lo slogan conta almeno quanto il contenuto. Tommaso Mazzanti de “L’Antico Vinaio” di Firenze è diventato una superstar prima di Instagram poi globale col gorgonzola spalmato a cazzuolate e una montagna di prosciutto sulla schiacciata calda. Con “Bada come la fumaaa!” è arrivato a New York, 20 negozi nel mondo, 300 dipendenti, 20 milioni di fatturato all’anno. Buon per lui, soprattutto riconosciamogli di aver dato lavoro a tanti.

In diretta su Tik Tok Donato De Caprio, quello di “Con mollica o senza?” a Napoli, si è già ingrandito parecchio ed è sbarcato a Milano. Grandi filoni di pane cafone riempiti con la qualunque, ma mi raccomando che non manchi il “tarallo sbriciolato”. E sotto di loro migliaia di influencer, milioni addirittura nel mondo, che imbottiscono panini mentre noi osserviamo i loro gesti imbambolati. Sono pezzi unici, panini che esistono solo per quel momento e che nessuno replicherà mai, prototipi che servono per i clic dei social. Praticamente degli Ufo. Sono panini che vivono una sola volta per inchiodarci davanti al video: come in aritmetica, l’inversione degli ingredienti non cambia nulla. È lo stesso meccanismo per cui Wanna Marchi ti ammalia e cerca di venderti lo scioglipancia o toglierti il malocchio. È come le sirene di Ulisse che ti chiamano al naufragio sugli scogli, un’esperienza ipnotica.

Siamo agli antipodi di Masterchef. Nessuno di noi aveva mai “impiattato” qualcosa prima che ce lo dicessero Cracco, Barbieri, Cannavacciuolo, Bastianich. Fino al 2010 la parola “impiattamento” non compariva nei principali vocabolari italiani. Ora siamo ll’opposto: il carboidrato fa da impalcatura mentre proteine e lipidi si sovrappongono a piramide verso l’alto. A costante rischio di cedimento strutturale. I social possono costruire un presente spettacolare e ammaliante anche per un banalissimo panino, sia pure abnorme, ma non ti restituiscono storia, tradizione, ricordo. Pochi se ne accorgono ma dentro al francesino, con la torta, vengono spalmati ricordi, vita e sentimento. E quelli non ce l’hanno tutti.


 

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