Il Tirreno

Il festival

La politica a Sanremo non giustifica Zelensky

di Alessandro Volpi*
La politica a Sanremo non giustifica Zelensky

Dal "martello" della Pavone al discutibile tormentone legato al leader ucraino

30 gennaio 2023
4 MINUTI DI LETTURA





Il festival di Sanremo è stato a lungo una manifestazione politica. Nato nel 1951, per circa vent’anni non ha mai affrontato temi politici ma ha costituito un modello di racconto popolare con cui il principale partito al governo, la Dc, intendeva veicolare verso il pubblico i propri valori di riferimento.

E i simboli di appartenenza ad un’Italia moderata e cattolica, peraltro senza incontrare troppe resistenze nel Partito Comunista togliattiano che, sul piano della morale e del senso comune, non si distingueva molto dagli eredi di De Gasperi.

Si trattava di un modello efficace e funzionale in un paese dove, nella prima metà degli anni sessanta, si vendevano venticinque milioni di dischi, tutti rigorosamente in lingua italiana e tutti, altrettanto rigorosamente dedicati all’amore.

Non è certo un caso, in tal senso, lo straordinario successo delle cover di pezzi d’Oltreoceano tradotti nell’idioma italico e stravolti nei contenuti.

Solo per citare un esempio molto eloquente di un simile fenomeno si può ricordare la cover di un pezzo molto politico di Pete Seeger, If I had a hammer, che narrava di una ingiusta sentenza contro un militante, trasformato da Rita Pavone nel fortunatissimo quarantacinque giri “Datemi un martello”, dove il martello sarebbe stato utilizzato da un’innamorata per colpire “la smorfiosa” che le intendeva sedurre il fidanzato.

Questo modello sanremese centrato su amore, famiglia e italianità, cominciò a scricchiolare alla fine degli anni Sessanta, prima con il suicidio, proprio nella città dei fiori, di Luigi Tenco, espressione di un malessere esistenziale non più contenibile dalle “canzonette felici”, e poi con la contestazione giovanile del millenovecentosessantotto, ostile ad ogni conformismo, compreso quello canoro.

Ma furono gli anni Settanta a travolgere il modello Sanremo e privarlo della sua forza “politica”; di fronte alla durezza dello scontro ideologico, alla violenza, alle battaglie per le libertà civili e alla rapida trasformazione dei costumi, le canzoni del festival non avevano più alcuna presa e, così, la Rai, e la Democrazia Cristiana, decisero di abbandonarlo fino al 1980.

In quell’ anno si avvertì che il vento stava cambiando, la tesissima stagione della crudezza politica si era largamente esaurita con la morte di Aldo Moro, e a presentare il Festival di Sanremo venne chiamato un giovanissimo disc jockey, Claudio Cecchetto, che venne affiancato da un funambolico Roberto Benigni.

Fu un’edizione tormentata, per l’utilizzo del play back e per le battutaccie dissacranti del comico toscano che portò per la prima volta la satira politica nel festival, scatenando persino interrogazioni parlamentari.

Ma gli ascolti della Rai, che aveva ripreso la diretta delle serate finali, furono ottimi dando il segno che si apriva una stagione nuova, quella in cui Sanremo diventava la “grande evasione”, secondo quanto recitava il titolo di un libro importante dedicato al festival da un comunista di rilievo come Gianni Borgna. La vocazione del festival ad essere il vero grande evento televisivo trovò il suo interprete migliore in Pippo Baudo che confezionò l’idea della televisione nazionalpopolare, diversa da quella degli anni Cinquanta perché meno tradizionale e meno chiusa, più castamente trasgressiva.

Capace di nuovo di essere un modello politico in quanto tale, destinato a dare l’impressione che i partiti di governo lasciavano ampio spazio alla critica; da Beppe Grillo fino a Crozza.

In un simile contesto, i richiami alla politica internazionale erano rari e sempre e comunque caratterizzati dall’effetto della testimonianza “postuma” come la presenza di Gorbaciov e consorte nell’edizione del 1999.

Rispetto a questa lunga storia portare il presidente ucraino a Sanremo per pochissimi minuti nel bel mezzo di uno show sembra essere solo una trovata pubblicitaria; Zelensky diventa la star per attirare la pubblicità commerciale, per fare audience dentro un contenitore la cui sostanza, ormai sedimentata nel tempo, stravolge una narrazione reale della tragedia della guerra. Declinare ogni cosa nella forma dell’intrattenimento appartiene allo sforzo in atto di spettacolarizzazione anche degli aspetti più crudi e disumani in nome del successo degli ascolti.

La guerra diventa una finzione scenica e l’aspetto più deteriore del mercato ingoia le vite umane; la tradizione “politica” di Sanremo non è questa e non può essere citata per giustificare una simile scelta.

*Università di Pisa
 

 

Primo piano
La protesta

Carrara, in migliaia allo sciopero dopo le frasi choc dell’imprenditore Franchi. La sorella di una vittima sul lavoro: «Sono qui per difendere chi non può più farlo»

di Luca Barbieri