Cento anni fa nasceva l’ingegner Chiti, toscanaccio che rivoluzionò la F1: la carriera, la stagione all’Alfa e i due Mondiali con Ferrari
Nato a Pistoia il 19 dicembre 1924, è morto a Milano il 7 luglio 1994. La sua figura leggendaria ricordata nel corso di un convegno organizzato dall’Ordine degli ingegneri
Cento di passione trascinati dal ricordo di Carlo Chiti, il vulcanico ingegnere pistoiese che ha segnato una lunga epoca di motorsport. Un uomo e un mito per generazioni di appassionati, una vera icona del mondo delle corse. Un personaggio geniale, una mente aperta, la cui sua forza è stata quella di non vivere del passato, ma soprattutto di affrontare con ironia quanto gli veniva proposto dal destino, giorno dopo giorno. Oggi a Pistoia la sua figura leggendaria sarà ricordata nel corso di un convegno organizzato dall’Ordine degli ingegneri a cento anni dalla nascita. Sarà un vero e proprio ritorno alle origini. Lì da dove tutto è iniziato prima che il corpulento ingegnere iniziasse a girare in lungo e in largo tutto lo Stivale.
Ha raccontato il figlio Arturo: «Mio babbo aveva un rapporto di amore perché era la città dove era nato e cresciuto. Mio nonno che si chiamava Arturo come me era un ingegnere ed era stato anche presidente dell’Ordine degli ingegneri, presidente della Pistoiese calcio e quindi era un uomo abbastanza importante e in vista a Pistoia in quegli anni e aveva un’avviata attività, tanto è vero che la stazione di Montecatini la fece costruire lui. Insomma, era un personaggio conosciuto e rispettato a Pistoia. Per mio padre Pistoia è sempre stata la città che gli faceva battere il cuore e poi lì c’erano tutti gli amici del liceo “Forteguerri” che incontrava ogni volta che tornava da quelle parti».
Un genio all’italiana
Parlando di Carlo Chiti si corre un rischio terrificante. Quello di confondere e impallare l’intelligenza pura dell’ingegnere con la simpatia trascinante, più la fluviale, aneddotica e folkloristica comunicativa da toscano purosangue. Dotato di una fioritura narrativa stile Collodi quasi uscita dal Pinocchio televisivo di Comencini. In altre e poche parole, solo a vederlo danzare corpulento e trafelato col vocione a mo’ di battipanni tra una storiella e l’altra, un’imprecazione e un borbottìo, magari con tanto di frizzo & lazzo, l’ingegnere extralarge rischia d’emergere più quale probabile caratterista di uno dei tre film di Monicelli dedicati a “Amici miei” che non per l’uomo colto, eclettico, sensibilissimo e telescopico che realmente fu. E sarebbe un gran peccato far prevalere dell’uomo l’involucro un po’ buffo e grosso sulla sostanza mentalmente luminosa e cartesianamente fine. Perché negli anni ruggenti delle corse Carlo Chiti è praticamente quasi solo all’interno dell’era delle neo F.1 a motore posteriore a poter e saper progettare di tutto.
Due Mondiali con Ferrari
Laureato in Ingegneria aeronautica a Pisa, Carlo Chiti, classe 1924, dopo un’esperienza alla Montecatini, approda all’Alfa Romeo nel 1952, ma dal 1957 passa alla corte di Enzo Ferrari dove vince il Mondiale dell’anno dopo, con Mike Hawthorn, e poi si getta a pesce nella più innovativa sfida tecnologica della Rossa, la 156 F.1. La Ferrari monoposto a motore posteriore che finalmente tenta la ventura di mettere il carro davanti ai buoi. Sarà un trionfo, con un Mondiale 1961 assolutamente mefistofelico e tale da ridicolizzare gli avversari, specie quelli inglesi.
Chiti resterà in Ferrari fino al termine di quella trionfale stagione quando, al termine d’un periodo di contrasti devastanti conil Drake, originati soprattutto per problemi di convivenza e tollerabilità con Laura Garello, la moglie del Drake, il Nostro con un manipolo di tecnici e fuoriusciti lascia incredibilmente la Casa del Cavallino per la neonata e ambiziosissima Ats. Mossa del tutto clamorosa, dettata dal carattere forte di Chiti, ma anche dalla dignità immensa, dalla voglia d’autonomia e dalla incrollabile fiducia nelle proprie qualità. E non è facile per un tecnico non ancora quarantenne rompere i ponti per sempre con Enzo Ferrari all’apice del successo, eppure il toscano non ha paura e va avanti, costi quel che costi. E così in termini di carriera pagherà un prezzo immenso. Perché da lì in poi per continuare nelle sue amate corse non dovrà limitarsi a essere il talento puramente ingegneristico e motoristico che è, ma sarà costretto a inventarsi amministratore, politico, agitatore d’uomini, organizzatore e interfaccia coi piloti. Ben presto, tramontata l’avventura Ats che in F.1 balla una sola estate, nel 1963, con gli altri angeli ribelli ex Ferrari, Giancarlo Baghetti e l’ex campione del mondo Phil Hill, Chiti nel 1966 torna all’Alfa Romeo, dove assume il ruolo di direttore generale Autodelta, meraviglioso braccio agonistico della Casa del Biscione.
L’Alfa? Una famiglia
E, attenzione, con l’Alfa Romeo, rischiando tutto, reputazione in primis, Carlo Chiti dà vita a un regno che sembra famiglia, permeata d’italianità trionfante e solo apparentemente pittoresca e caciarona. In Autodelta l’Alfa viene a concentrarsi nel Mondiale Marche per vetture Sport Prototipi, dove, il Quadrifoglio sbanca e fa suo il titolo iridato 1975 con l’Alfa Romeo 33TT12. Due anni dopo, gli Alfoni di Chiti fanno il bis nella serie mondiale per prototipi. In poche parole, l’ingegnere, dopo i due mondiali vinti in F.1 tenendo le briglie al Cavallino, con le sue creature ne ghermisce un paio pure tra le barchette, ancora una volta occupandosi praticamente di tutto.
Il ritorno in F.1
Forti e confortati dai risultati nei prototipi, Chiti riporta il marchio Alfa Romeo nel Mondiale di F.1, dal 1976 in veste di fornitore di motori alla Brabham. Ma nel Circus ormai si è destinati a stupire, far scuola e vincere più grazie all’aerodinamica innovativa che non coi prodigi di qualsivoglia “motorone”. L’avvento dell’effetto suolo e della Lotus rende obsoleto il Boxer e Chiti in quattro e quattr’otto sforna un V12 che, montato sulla Brabham nel 1979, non si toglie troppe soddisfazioni. Le sole consolazioni pregresse sono ascrivibili proprio al Boxerone dell’anno prima, quando Niki Lauda si aggiudica il controverso Gp di Svezia ad Anderstorp su Brabham-Alfa Romeo BT46/B grazie al famigerato “ventilatore”, peraltro subito vietato. Arriverà anche il successo di Niki nel tragico Gp d’Italia, segnato dall’incidente al primo via le cui conseguenze porteranno alla morte di Ronnie Peterson. Poi quasi il nulla, a parte l’austriaco che vince su Brabham Bt48 dotata del V12 Alfa il Gp di Imola 1979, neanche valido per l’iride.
Il rientro dell’Alfa in F.1
Insomma, l’avventura di Chiti quale propugnatore della fornitura di motori finisce qui e inizia la stupenda e coraggiosa stagione con l’Alfa-Alfa. A sfidare non solo rivali in pista, ma anche forze di peso e contrappeso politico che vogliono fin troppo spesso l’ingegnere e l’Alfa ostaggio degli “scaldasedi” dei partiti e dei modi vischiosi d’esercitare il potere da parte dei padroni del vapore della Prima Repubblica. Carlo Chiti, commovente, se ne frega e va avanti fin che può, ma a suo modo tornando a fare scuola. Perché è vero che per l’Alfa-Alfa niente è facile e regalato, ma dopo due anni di sforzi Bruno Giacomelli a Watkins Glen, nel Gp Usa East, chiude la stagione 1980, conquista la pole e domina la corsa su uno dei tracciati più probanti e pericolosi fino a che il motore si ammutolisce per un problema di accensione. È il destino, forse.
Verace puro al tramonto
Ormai giorni e gioie di Chiti all’Alfa sono al tramonto. A metà anni ’80 il suo cuore va tutto alla neonata Motori Moderni col turbo - un V6 di 1.498 cc sovralimentato con turbine KKK - destinato alla Minardi e poi perfino alla debuttante Ags, per chiudere con lo sfortunato tentativo di un boxer aspirato siglato 1235 e marchiato Subaru, destinato al team Coloni nel 1990. Ma la grande e sfolgorante carriera di Carlo Chiti nelle grandi corse è già ben oltre i suoi momenti più belli. Si spegne a Milano, il 7 luglio 1994. Ricordato e compianto quale tecnico d’ingegno, da carattere e valori forti, tra i quali amicizia e lealtà.
(*Andrea Cordovani direttore di Autosprint. Ha iniziato la sua carriera giornalistica al quotidiano “Il Tirreno”)