Lukaku, da idolo a nemico pubblico. Travolto dai fischi dei tifosi traditi: «Ma un pallone datemelo»
Il ritorno dell’attaccante della Roma a San Siro dopo il trasferimento dall’Inter. Da Collovati a Baggio, le storie di chi come lui da trascinatore è diventato il bersaglio degli ultras
Da trascinatore a traditore. Dalle stelle di Champions alle streghe prima della notte di Halloween. Da Big Rom a Big Bauscia, almeno nel cuore di chi lo ha amato da pazzi. Tanto da riabbracciarlo già una volta pensando che la seconda sarebbe stata per sempre. Romelu Lukaku alle acrobazie compiute in una carriera piena di trionfi, adesso può aggiungere quella di aver rovesciato in una sola estate fondamenta e viscere dello stadio San Siro, la Scala del calcio. La casa dell’Inter. Quel teatro nerazzurro che ha accolto il suo talento per tre stagioni (e tre trofei) e adesso gli ha voltato le spalle: arrabbiato, ferito.
Tanto da alzare la voce. E fare rumore. Tanto. Per fargli sentire più forte la propria delusione per non aver giurato amore eterno a quei colori. Per aver detto e spergiurato che sarebbe stato «al loro fianco» e invece – capita anche altrove – trattava con altri colori. Nuovi tifosi. Altri amori. Diverse passioni, ma (s)vendendo le medesime azioni. Pugnalando il passato alle spalle. Eccoli i trentacinquemila fischietti distribuiti fuori dallo stadio nonostante i divieti (pare che solo Materazzi e pochi altri lo abbiano rifiutato all’ingresso), l’applicazione per smartphone che riproduce il suono del dissenso che ha scalato le classifiche di quelle più scaricate in Italia negli ultimi giorni. Il risultato del business del rumore nei dintorni di San Siro è che all’ingresso in campo con la maglia della Roma, la sua nuova squadra, il suo nuovo porto sicuro, Lukaku è stato travolto dalla musica della rabbia, quella che non gli ha perdonato l’affronto. E aspettava la vendetta. Una punizione calciata oltre al limite dei decibel.
«Diamo un degno bentornato a Lukaku, rendiamogli la vita un inferno in campo. Insieme alla fanzine ci sarà un fischietto, usiamolo tutti quando il belga tocca la palla, ogni suo movimento deve essere un fischio unico. Chi ha tradito, non rispettato i nostri colori deve subire tale punizione, deve capire che la nostra sacra veste non deve essere un peso indossarla ma un vanto, un orgoglio», sono le parole del manifesto del rancore firmato dai tifosi interisti. Romelu ha sorriso, se lo aspettava. Lo sapeva. Ha salutato i vecchi compagni a centrocampo e si è messo al centro dell’attacco giallorosso. Ha battuto il calcio d’inizio e poco altro nel primo tempo.
«Ma un pallone datemelo», ha detto ai compagni all’intervallo. Ma forse gli altri giocatori della Roma non lo hanno sentito per colpa dei fischi, perché nella ripresa poco è cambiato. Nessun fischio per fiaschi. Fischi e basta. Fino al gol di Thuram, il nuovo idolo di San Siro che ha segnato davanti a papà Lilian. Il nuovo eroe che adesso sembra per sempre. Ma domani chissà. È la parabola della vita dentro la metafora del calcio. Era già successo e accadrà ancora. Ma ogni storia ha le sue sfumature. E finali diversi.
Forse il primo giocatore del calcio moderno a cambiare sponda lungo i Navigli è stato Fulvio Collovati, che nel 1982 passò dal Milan all’Inter. Lo stesso ha fatto al contrario Ronaldo giocando nel Milan dopo aver indossato la maglia nerazzurra. Altrove i tifosi del Barcellona non hanno ancora superato il trasferimento di Figo al Real Madrid. Oppure Mario Gotze che dopo quattro stagioni al Borussia Dortmund, ha accettato la corte degli eterni rivali del Bayern Monaco. Per tornare a casa Italia nemmeno i genoani hanno mai perdonato a Montella di aver fatto decollare l’attacco sampdoriano. Come i napoletani che hanno visto Gonzalo Higuain lasciare i partenopei per vestire la maglia bianconera. E poi come non ricordare la rivolta dei tifosi della Fiorentina quando Roberto Baggio passò alla Juve? Il ritorno al Franchi del “Divin codino” fu come leggere “Guerra e Pace” in novanta minuti: la rabbia della gente, l’imbarazzo del campione. La coreografia della Fiesole col Duomo, il Battistero e Palazzo Vecchio per dire a Baggio: gli artisti vanno, le opere d’arte restano. Poi quel finale che non ti aspetti nemmeno trentadue anni dopo: il numero dieci che non batte il rigore (sbagliato) e dopo la sostituzione raccoglie la sciarpa viola lanciata in campo da un tifoso. Niente fischi, allora furono solo applausi. Ma erano altri eroi.