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Picchio, 80 anni e un cuore diviso a metà: «Ma a Firenze sono diventato un uomo»

di Luca Tronchetti
Giancarlo De Sisti negli anni in cui giocava nella Fiorentina
Giancarlo De Sisti negli anni in cui giocava nella Fiorentina

Il compleanno di De Sisti: cresciuto a Roma ma simbolo e capitano dei viola. Il rapporto con Pesaola: «Il Petisso ti metteva a tuo agio». Valcareggi, Liedholm e Mou

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Una trottola che non ha mai sbagliato un passaggio in vita sua anteponendo il cervello ai polmoni in 19 anni di professionismo con 478 partite e 50 reti tutte in serie A equamente divise tra i due colori del cuore, il giallorosso della Roma e il viola della Fiorentina, con un’intensa spruzzata d’azzurro (29 presenze e 4 reti) che gli è valsa il titolo di campione d’Europa (1968) e di vice campione del Mondo (1970).

Taglia oggi il traguardo degli 80 anni Giancarlo De Sisti icona del calcio in bianco e nero, l’ultimo capitano gigliato a vincere uno scudetto 54 anni fa con un palmarès che comprende anche una Coppa delle Fiere (Roma 1961), una Mitropa Cup (Fiorentina 1966) e due Coppa Italia (Roma 1964, Fiorentina 1966). «Come festeggio il compleanno? A casa con moglie, figli e nipoti nella speranza che questo doloroso mal di schiena che da tempo mi perseguita possa darmi un po’ di tregua», scherza la leggenda del pallone apparso anche sul grande schermo nel film cult “L’allenatore nel pallone” come uno degli antagonisti di Oronzo Canà alias Lino Banfi.

De Sisti per tutti è e resterà “Picchio”. Intendiamoci, nessun riferimento con un carattere rissoso o un gioco maschio visto che l’ex centrocampista dai piedi buoni degli anni Sessanta e Settanta è sempre stato un emblema di correttezza e serietà e nemmeno con l’uccello dal becco tronco intento a martellare i tronchi d’albero: «In romanesco il picchio è un oggetto in legno a forma di pera con la punta in ferro e con i contorni intarsiati dove nel Dopoguerra si arrotolava lo spago o il filo per cucire e che i ragazzini utilizzano anche come trottola. Un soprannome che mi venne affibbiato nelle giovanili della Roma da Ginulfi, che poi ha sposato mia cugina, Carpenetti, Pietrantoni, Gualandri, Bardelli e gli altri ragazzi allenati da Guido Masetti e Geza Boldizsar. Io ero il più piccolo della comitiva, ma ero imprevedibile: saltavo, correvo, dribblavo, avevo i tempi giusti d’inserimento».

Picchio nasce a Roma nel quartiere popolare del Quadraro, tra San Giovanni e Cinecittà, e inizia a dare i primi calci al pallone per strada dove le macchine circolavano di rado e all’oratorio: «Alla parrocchia di S. Maria del Buon Consiglio a due isolati di distanza da casa mia. Ho iniziato a capire che ci sapevo fare quando i compagni più grandi mi sceglievano per primo al momento di comporre le squadre». Figlio di Romolo, autista della Stefer, la società delle tramvie e ferrovie elettriche di Roma, e di Maria segretaria alla Centrale del Latte della capitale, dopo un tesseramento di sei mesi con la Forlivesi, non ancora sedicenne viene tesserato dal club giallorosso. Il debutto non ancora diciottenne è da dimenticare: «Era il 12 febbraio 1961 e giocavamo a Udine. Si sentì male Alberto Orlando, che era un’ala, e l’allenatore Alfredo Foni, ex campione del Mondo nel 1938, mi schierò in un ruolo che non era il mio. Non toccai palla, perdemmo 2-1 e venni rispedito senza tanti complimento nella squadra riserve». L’occasione del riscatto alla penultima di campionato. L’argentino Lojacono è febbricitante e Foni è indeciso sull’impiego del giovane De Sisti: «Ringrazierò tutta la vita i senatori Losi e Guarnacci furono loro alla fine a convincere l’allenatore a schierarmi perché il tecnico era titubante e avrebbe mandato in campo il titolare anche se non era al meglio. Giocammo a Firenze e venni segnalato come migliore in campo diventando, grazie ai consigli di Schiaffino che reputo assieme a Pelè il più grande calciatore di tutti i tempi, dalla stagione successiva un giocatore importante fino ad essere ritenuto il gioiello della squadra». Ma la Roma sta attraverso una spaventosa crisi economica e rischia il crac. «Fui la prima plusvalenza di quel periodo. Ero militare nei carristi alla Cecchignola quando mi comunicarono la notizia. La presi come un tradimento: di colpo dovevo lasciare la mia città, mia madre, la fidanzata. Invece Firenze è stata la mia seconda città. Il mio cuore ancora oggi che ho 80 anni resta diviso a metà tra le capitale politica dove sono diventato calciatore e la capitale culturale dove sono diventato uomo. Con entrambe ho vinto ed entrambe mi hanno inserito nella hall of fame».

Firenze era nel suo destino e non solo perché in quello stadio ha vinto lo scudetto Juniores nel 1960 in finale con il Venezia e ha giocato con i giallorossi la partita che lo ha lanciato definitivamente in prima squadra.

Nella Fiorentina “Picchio” è stato un capitano amato e rispettato da compagni, avversari e tifosi. Con Pesaola, il tecnico del tricolore, un rapporto speciale: «Il Petisso era un personaggio, che sapeva parlare con i calciatori e metterli a proprio agio. Quando arrivò Pirovano, che era il più anziano, mi cedette la fascia dicendo che sapevo presentarmi meglio agli arbitri. Seppi che fu un’idea di Pesaola. Gli avversari più tignosi? Trapattoni, Perani, Sogliano, Noletti, gente che ti braccava, che ti stava alle calcagna per tutti e 90 minuti e non ti lasciava respirare».

Valcareggi, Liedholm e Mou. La partita della sua vita resta Italia-Germania 4-3 ai mondiali del Messico e il ct Ferruccio Valcareggi è stato una sorta di padre putativo: «Ha sempre avuto fiducia in me e nonostante la presenza di Mazzola e Rivera in azzurro giocavo sempre nell’undici di partenza. Abbiamo perso quel Mondiale soltanto perché ci siamo trovati davanti la squadra più forte del mondo e avevamo alle spalle la fatica dei supplementare contro i crucchi. Oggi vedo allenatori e schemi che stendo a comprendere. Quando allenavo io ho sempre ammirato, oltre al mio maestro Liedholm che era un passo avanti a tutti, uno come Gigi Simoni per la sua capacità di gestire un gruppo unità alla sensibilità con colleghi e avversari. Mourinho? Sicuramente un grande allenatore, ma ai miei tempi e anche quando ho sfiorato in panchina lo scudetto da tecnico agli arbitri davamo dei lei precedendo il loro cognome dall’appellativo signore. Educazione e rispetto sono sempre state il mio pane quotidiane e per questo oggi faccio fatica a guardare le partite e certi giocatori che baciano la maglia per poi passare, a suon di milioni, da una squadra all’altra».

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