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La democrazia delle lacrime, i semidei che tornano uomini

di Giorgio Billeri
La democrazia delle lacrime, i semidei che tornano uomini

Il pianto di Federer, Totti, Baggio, Michael Jordan, Federica Pellegrini. Quando la carriera e la gloria finiscono arriva la paura della vita “vera”

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C’è democrazia nelle lacrime. Quelle che rigavano il volto di Roger Federer nello struggente addio dell’arena londinese sono le stesse che tutti noi, al piano di sotto, quello dei mortali non baciati dalla musa del talento, abbiamo versato tante volte per le piccole grandi cose della vita: magari guardando i fari posteriori dell’auto che ci portava via la promessa d’amore della vacanza, guardando gli ombrelloni dell’estate più bella chiudersi inesorabilmente. O semplicemente sentendo la gola chiudersi per il finale di un film o per un libro. Le lacrime non fanno distinzioni tra i semidei dello sport, del cinema, della musica e tutti quelli che per anni li hanno applauditi e venerati, che sono cresciuti con loro, alimentando e nutrendo la loro leggenda.

Miliardi di persone, in questi giorni, hanno ricacciato la commozione in gola assistendo al funerale di una regina che pochissimi avevano visto, anche da lontano. Una persona con cui non avremmo mai parlato, ma che ha fatto parte della nostra vita. Logico dunque che i nostri occhi siano appannati davanti a un ragazzo di 41 anni, multimilionario, icona planetaria dello sport, conosciuto dall’Alaska alla Polinesia, che davanti a migliaia di persone non riusciva a parlare, ad andare avanti, il tumulto nel cuore, le spalle scosse da singhiozzi che sembravano quelli di tutti noi, quando l’emozione entra in tackle.

Roger Federer, il tennis fatto uomo, lo svizzero gentile che ha portato il gioco dal Nirvana sulla terra, non si è vergognato di piangere. Quando ha citato la moglie Mirka e i quattro figli, quando ha incrociato gli occhi dei grandi rivali di sempre, da Nadal a Djokovic fino a Murray, che per anni lo hanno anche odiato sportivamente ma che non sapevano dove trasportare lo sguardo per non cedere all’emozione per un sipario che si chiudeva su una storia unica.

Il sipario, già, metafora perfetta di una storia ai titoli di coda: consolante e terribile, la fatica di essere al centro del mondo che finisce e l’horror vacui, il non sapere cosa fare del domani.

Roger, come tanti altri campioni al crepuscolo, ha battuto tutti, davvero tutti in campo, ma adesso dall’altra parte della rete deve affrontare la vita reale: contro di lei non bastano smorzate e servizi all’incrocio delle righe, lei la palla te la ributta sempre nel tuo campo.

Le lacrime, la fine di una carriera. Il non vergognarsi ad esternare se stesso e le proprie fragilità davanti a uno stadio pieno è forse il maggiore sintomo di grandezza, della persona e dello sportivo.

Francesco Totti, ad esempio, è quanto di più diverso ci possa essere da Roger Federer, come il calcio è popolare, al polo opposto rispetto all’eleganza del tennis. Eppure anche l’ottavo re di Roma, davanti all’Olimpico disperato, a proposito di democrazia delle emozioni, si tolse la maschera del superuomo che per l’universo giallorosso era stato: «Ho paura, aiutatemi», disse coram populo, e in quel rito pagano diventò subito uno di noi, fragile, indifeso, canna al vento davanti alla vita che voleva togliergli l’amato pallone.

Campioni, fragili. Come Roberto Baggio, forse il più iconico perché davvero uno di noi, con una sola differenza, quella di aver preso i piedi in prestito dagli angeli. «Da quando Baggio non gioca più non è più domenica», lo ha celebrato Cesare Cremonini in una canzone, e non è un caso: lui era come le paste, il vestito buono, lo struscio in centro del dì di festa. San Siro, era il maggio del 2004, si alzò tutto in piedi guardando il codino ondeggiare per l’ultima volta: lui era l’avversario quel giorno ma a nessuno importava, il Genietto di Caldogno era patrimonio di tutti ed era come quei fanalini dell’auto che ti portavano via la fidanzatina del mare, lasciava vuoto e malinconia. Si era rotto le ginocchia come tanti di noi, era gentile e educato, figlio ideale di tante mamme. E non sarebbe stata più domenica, come ci ha ricordato Cremonini.

Piangeva Baggio e ha pianto, anche se con discrezione sabauda, anche Alessandro Del Piero quando lo Stadium lo ha omaggiato per l’ultima volta. Il fuoriclasse che toglieva le ragnatele dagli incroci tornava ad essere solo un giovane uomo, un marito, un padre. Come Paolo Maldini, occhi umidi e cuore in tumulto, al suo giro di campo celebrativo in un tripudio rossonero. Una bandiera ammainata.

Non si è vergognato dei suoi sentimenti Vincenzo Nibali: ha scelto il “Processo alla Tappa” al Giro d’Italia per dire al mondo che i suoi pedali avrebbero smesso di mulinare, che gambe e polpacci non nascondevano più l’esplosivo. Lacrime sincere, in diretta, senza pudore, d’altra parte il ciclismo è sport di sentimenti veri, puri, quelli della gente che si assiepa sulla strada. I nostri sentimenti. Da camoscio sui Pirenei e sulle Alpi a ciclista della domenica.

Le lacrime livellano, rendono gli eroi dello sport uomini di tutti i giorni. E donne, anche Divine come Federica Pellegrini, scesa dall’Olimpo per mostrare al mondo come si fende l’acqua. «Il mio tempo finisce qui», disse in mezzo ai singhiozzi quando capì che l’ultimo autobus era passato.

E a molti di noi era sembrato impossibile che il volto una macchina da canestri e da soldi come Michael Jordan, il Dio del basket, signore e padrone del circo rutilante della Nba, potesse rigarsi di lacrime eppure il suo ritiro, celebrato dal fortunato documentario “The Last Dance” (sull’epopea dei Chicago Bulls) altro non è stato che un susseguirsi di pianti, emozioni, voce spezzata, commozione.

Ultime volte, struggenti come quella di Tiger Woods, per l’ultima volta alla buca 18 del tracciato di S. Andrews, quello del Master e della giacca verde, sancta sanctorum del golf: quando la mazza è finita della sacca l’uomo più pagato al mondo ha capito che dietro il sipario c’era l'ignoto. O Lindsey Vonn, divinità bionda dello sci, che mischiò il calore delle lacrime al gelo di Cortina, annunciando che le sue evoluzioni perfette tra i paletti erano ormai storia perchè le ginocchia non reggevano più.

Lacrime, sipario, la vita che comincia dopo l’estasi agonistica: Federer e i suoi gesti bianchi, Totti e il suo cucchiaio, Baggio e i suoi dribbling poetici, Tiger e i suoi birdie, Jordan e le sue schiacciate che diventarono una marca di scarpe, Federica e i suoi 200 stile libero leggendari: nessuno si è vergognato di piangere perchè nessuno sa cosa si nasconde dietro il sipario, nel buio della platea, oltre lo scintillio della ribalta. E nessuno che ama lo sport si vergogni a piangere con loro.

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