Il Tirreno

Moby prince

Moby Prince 1991-2018: la strage, il dolore e la lunga ricerca della verità

La Moby Prince attraccata al porto di Livorno mentre viene irrorato di schiuma ritardante per recuperare i corpi
La Moby Prince attraccata al porto di Livorno mentre viene irrorato di schiuma ritardante per recuperare i corpi

In una notte le fiamme consumarono 140 vite, lasciando un solo sopravvissuto. Oltre vent'anni di processi non hanno trovato colpevoli o una verità condivisa: ora i nuovi elementi della Commissione parlamentare d'inchiesta

23 gennaio 2018
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LIVORNO. 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince della Navarma salpa da Livorno diretto a Olbia. Il porto toscano sembra una base americana, pieno com’è di navi militari di ritorno dal conflitto nel Golfo. Aveva mollato gli ormeggi alle 22.03 dal porto di Livorno, mezz'ora più tardi era già consumata dal fuoco alla deriva nella rada del porto toscano, una bara galleggiante. La prua del traghetto era finita contro la petroliera Agip Abruzzo, che lanciò l'allarme per un incendio a bordo dopo la collisione con una bettolina.

 

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I soccorsi si concentrano sulla petroliera, solo per caso alle 23.35 due ormeggiatori si avvicinarono al traghetto in fiamme. Troppo tardi. 140 persone a bordo erano morte tra le fiamme, la più grande tragedia della marineria civile italiana. Solo un superstite il mozzo Alessio Bertrand che, aggrappato al bordo del Moby, fu salvato proprio dagli ormeggiatori che lo convinsero a gettarsi in acqua. A distanza di 27 anni da quella maledetta notte, ecco la relazione della Commissione d'inchiesta parlamentare, che attacca i soccorsi e giudica l'indagine "superficiale".

 

Dentro l'inferno che brucia, il racconto dei soccorritori

 

«Come abbiamo fatto a scoprire noi che a finire contro la petroliera non era stata una bettolina bensì il Moby Prince? Abbiamo dato retta all’istinto: eravamo sotto l’Agip Abruzzo offrendo aiuto ai marittimi nel caso volessero abbandonarla, abbiamo sentito che i soccorritori stavano dando l’allarme perché qualcuno aveva notato avvicinarsi una nave che si muoveva come se nessuno la guidasse, era senza più governo in mezzo a quel caos. È stato un flash, abbiamo capito che doveva avere qualcosa a che fare con qualcosa di strano che avevamo scorto poco prima: come un inverosimile baluginare di fiamme dietro una sagoma scura. E ci siamo buttati da quella parte».

 

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Valter Mattei (ma tutti lo conoscono come Villi) e Mauro Valli sono gli ormeggiatori che quel mercoledì di 25 anni fa esatti esatti capiscono che da lì, a meno di un niente dall’imboccatura di uno dei primi 25 porti del Mediterraneo, è accaduta una apocalisse di morti. «Che si trattava del Moby Prince ce l’ha detto il mozzo Alessio Bertrand, l’unico che ce l’ha fatta», raccontano i due.

 

Sono a bordo dell’imbarcazione della Coop ormeggiatori, sette metri di vetroresina, quasi un guscio di noce in mezzo al bailamme di fuoco. la fine dei 140 morti non è stata affatto istantanea: non c’è stata una “bomba atomica” che in un attimo ha polverizzato tutto. Basti pensare che quasi la metà dei cadaveri è stata trovata nel salone deluxe protetto dalle porte tagliafuoco… Dopo che Valli e Mattei hanno consegnato il mozzo alla motovedetta si ributtano nella mischia. Solo che intanto «il Moby è sparito», come dice Mattei. I motori erano ancora in funzione e il traghetto continuava a girare chissà dove. Si rimettono a caccia della nave fantasma e, complice anche una scia di odore di petrolio, riescono a ritrovarla. Non è una palla di fuoco come ci si immaginerebbe, ma «qualcosa che assomigliava al bruciatore di una caldaia: le lingue di fuoco uscivano dagli oblò», racconta Mattei. È come se il petrolio fosse stato inghiottito: il rogo è nella “pancia” del traghetto.

 

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Bisogna affiancare la nava, superarla, per guardare dallo squarcio che c’è a prua. «La nostra barca faceva sette nodi, il Moby quasi altrettanto: le abbiamo inventate di ogni mentre dall’alto cadeva di tutto, roba infuocata. Alla fine ce l’abbiamo fatta, eravamo davanti. Abbiamo guardato là dentro e abbiamo visto un inferno di fuoco: difficile che si fosse salvato qualcuno». Impossibile fare di più.

 

Vent'anni di processi senza colpevoli

 

Il processo di primo grado a Livorno

 

Dopo l’incidente la Procura di Livorno apre un fascicolo per omissione di soccorso e omicidio colposo. Il processo di primo grado inizia il 29 novembre 1995. Al banco degli imputati siedono in quattro: il terzo ufficiale di coperta dell'Agip Abruzzo Valentino Rolla, accusato di omicidio colposo plurimo e incendio colposo; Angelo Cedro, comandante in seconda della Capitaneria di Porto e l'ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, accusati di omicidio colposo plurimo per non avere attivato i soccorsi subito; Gianluigi Spartano, marinaio di leva, imputato per omicidio colposo per non aver trasmesso la richiesta di soccorso.

 

Nella fase istruttoria il gil decide di archiviare le posizioni dell'armatore di Navarma, Achille Onorato, e del comandante dell'Agip Abruzzo, Renato Superina.

 

Il processo dura due anni e la sentenza arriva nella notte tra il 31 ottobre e il 1º novembre 1997. In un'aula la tensione è forte, il tribunale ha chiesto la presenza di di polizia e carabinieri per prevenire problemi.   il presidente Germano Lamberti legge una sentenza di assoluzione perché «il fatto non sussiste». Si va in appello.

 

VIDEO. DAL NOSTRO ARCHIVIO

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Il processo di appello a Firenze

 

Il 5 febbraio 1999 la terza Sezione della Corte d'Appello di Firenze dichiara di "non doversi procedere nei confronti del Rolla in ordine ai reati ascrittigli perché estinti per intervenuta prescrizione. Nella sentenza però si legge: "(...) non si può non rilevare, che l'inchiesta sommaria della Capitaneria, che per alcuni versi è la più importante perché interviene nell'immediatezza del fatto ed è in qualche modo in grado di indirizzare i successivi accertamenti e di influire sulle stesse indagini penali, può essere condotta da alcuni dei possibili responsabili del disastro".

 

Il processo parallelo contro le manomissioni a bordo a Firenze

 

Contemporaneamente al processo principale, nell'allora pretura vennero giudicate due posizioni stralciate: quella del nostromo Ciro Di Lauro, che si autoaccusò della manomissione, sulla carcassa del traghetto, di un pezzo del timone, e quella del tecnico alle manutenzioni di Navarma, Pasquale D'Orsi, chiamato in causa da Di Lauro. I due erano accusati di frode processuale, per aver modificato le condizioni del luogo del delitto, ovvero per aver orientato diversamente la leva del timone in sala macchine da manuale ad automatico, nel tentativo di addossare l'intera responsabilità della vicenda al comando del Moby Prince.

 

Nel corso di una udienza, Ciro Di Lauro confessò di aver manomesso il timone. Ma il pretore di Livorno assolse entrambi gli imputati per «difetto di punibilità». Il pretore di Livorno, pur concordando con il PM sulle responsabilità degli imputati, non ritiene punibili gli stessi, poiché pure essendo accertata la manomissione, quest'ultima non ha tratto in inganno i periti saliti successivamente a bordo e quindi, seppur deprecabile, non è punibile penalmente. La sentenza verrà confermata sia dal processo di appello sia in Cassazione.

 

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Nel 2006 la Procura di Livorno, su richiesta dei figli del comandante Chessa che comandava la Moby Prince, ha decisodi riaprire un filone d'inchiesta sul disastro del traghetto.  I familiari chiesero in particolare di indagare sul possibile traffico illecito di armi e della presenza di navi militari o comunque navi al di fuori del controllo della Capitaneria di Porto. Il 5 maggio 2010 la Procura di Livorno ha chiesto l’archiviazione del nuovo processo e il gip l’ha accolta. Le ricostruzioni dei Chessa non hanno convinto i magistrati.

 

Nel 2013 iniziò una martellante campagna per sostenere la lotta civile dei familiari delle vittime del Moby Prince per ottenere verità e giustizia. Dopo un pressing di due anni, nel 25 anniversario della strage, il 22 luglio al Senato all’unanimità è stata votata l’istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta sul Moby Prince.

 

La commissione d'inchiesta: le nuove verità

 

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Strumentazioni inadeguate, con un solo radar in possesso della stazione dei piloti, zero formazione in caso di incidenti in mare, soccorsi improvvisati e non coordinati dalla Capitaneria, un’inchiesta giudiziaria – la prima – frettolosa, dove emergono pure conflitti di interesse. E a distanza di 27 anni omissioni da parte dei protagonisti che durante le audizioni hanno reso dichiarazioni «convergenti nel negare evidenze in atti a loro attribuiti o fornito versioni inverosimili degli eventi». È un quadro durissimo nei confronti delle autorità livornesi e degli addetti ai lavori quello che emerge nella relazione finale della commissione d’inchiesta parlamentare sulla tragedia del Moby Prince avvenuta la notte del 10 aprile del 1991 provocando la morte di 140 persone. Relazione presentata mercoledì 24 ai familiari delle 140 vittime della strage. 

 

Uno dei dati che emerge dalla commissione presieduta da Silvio Lai racconta come dalla Capitaneria di porto, dopo la collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo, «non siano partiti ordini precisi per chiarire l’entità e la dinamica dell’evento e per ricercare la seconda imbarcazione (il Moby)». Si aggiunge – scrivono nella bozza finale – un ulteriore dato: nel corso dell’audizione del pilota Savarese, la commissione ha appreso che nella la stazione dei piloti del porto c’era un radar, dispositivo allora non disponibile nella sala operativa della Capitaneria. Di quel radar – si domandano – sapevano in Capitaneria?». E ancora: «Era un’apparecchiatura utile per monitorare l’area della tragedia e o serviva solo per il servizio piloti e risultava inutile per i soccorsi? In quale misura fu coinvolta la stazione di Livorno Radio o la torre di avvistamento dell’Avvisatore marittimo quella notte? Si tratta – scrivono – di una torre che si staglia sul mare alta sul mare con una visuale veramente eccezionale, priva di ogni ostacolo». Una premessa necessaria poiché, come risulta agli atti della commissione, alle 23,30 – dunque un’ora dopo la collisione – la motovedetta della Capitaneria, comunicò a terra di aver raggiunto la petroliera aggiungendo al contempo «di aver appreso che la bettolina non correva rischi». Il risultato di questa inadeguatezza, secondo la commissione, potrebbe essere stato fatale ad alcuni passeggeri e membri dell’equipaggio, sopravvissuti a bordo del traghetto più a lungo rispetto ai trenta minuti che i periti hanno stabilito durante le inchiesta giudiziarie.

 

Nel mirino anche i soccorsi. «Non fu avviata – si legge – nessuna attività finalizzata alla ricerca del secondo mezzo coinvolto nell’incidente e neppure di mettersi in contatto radio con i mezzi recenti usciti dal porto. Inoltre, anche quando, con incredibile ritardo, ci si imbattè nel traghetto incendiato, non risultano tentativi di spegnere a bordo e tantomeno di prestare soccorso ai passeggeri del traghetto». Lo stupore dei membri della commissione emerge nel passaggio successivo. «Il contesto emerso, determinato forse dalla convinzione che la nave investitrice fosse una bettolina e non una nave passeggeri, desta sconcerto anche in considerazione del fatto che diversi elementi, fra i quali il posizionamento dei corpi nel traghetto, evidenzia che il comando della nave avesse predisposto un vero e proprio piano di emergenza con la raccolta dei passeggeri nel salone De Luxe in attesa che arrivassero i soccorsi». Appare grave – sottolineano – come anche all’epoca dei fatti non fossero previste attività periodiche di formazione e addestramento tali da consentire al personale militare e civile di affrontare avvenimenti di tale portata».

 

 

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La riflessione finale è sconcertante. «La disamina degli atti porta a una univoca conclusione: la Capitaneria di Livorno, tanto nella fase iniziale dei soccorsi quanto nel momento in cui assunse la direzione delle operazioni il comandante Albanese, non ha valutato l’effettiva gravità della situazione con specifico riferimento al coinvolgimento di una nave traghetto, sia perché non sono stati resi disponibili dati utili all’identificazione del traghetto sia per l’incapacità di valutare la situazione, così determinando un’impostazione delle operazioni di soccorso unicamente volte verso la petroliera». A distanza di 28 anni la commissione non riesce a dare tutte le risposte. «Non è dato comprendere come e per quali motivi il comando della Capitaneria non sia riuscito a correlare l’avvenuta partenza di un’unica nave dal porto con la collisione, né a richiedere informazioni al personale presente sulla torre degli Avvisatori. È di palmare evidenza che se ciò fosse stato fatto si sarebbe tempestivamente apprezzato che l’altro natante coinvolto nella collisione era il Moby Prince». Ecco perché la stessa commissione ritiene che l’autorità marittima «avrebbe – vista la situazione – dovuto valutare la possibilità di un intervento dei mezzi dipendenti dell’alto Comando periferico della Marina», invece – ripetono – «durante le prime ore cruciali, prima e dopo il ritrovamento del traghetto, la Capitaneria appare del tutto incapace di coordinare l’azione di soccorso verso il Moby Price».

 

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Tutto l’impianto della sentenza di assoluzione in primo grado sulla tragedia del Moby Prince – ricorda la commissione – «è retto dalla convinzione secondo la quale, in un lasso di tempo breve (non più di 30 minuti) nel traghetto, passeggeri e ed equipaggio fossero tutti morti». Al contrario «Alessio Bertrand (unico a salvarsi) sopravvisse mentre il traghetto era in fiamme, oltre un’ora dopo il mayday». Inoltre la stragrande maggioranza delle vittime furono trovate nel salone De Luxe predisposto per resistere al fuoco. «Queste vittime – è il responso – furono trovati con tassi di carbossiemoglobina molto diversi da loro, indossavano il salvagente e avevano con sé i bagagli». Dunque questi elementi «non appaiono compatibili con una disorganizzazione interna al Moby Prince successiva all’impatto, né con l’ipotesi di una morte rapida e quasi contestuale di tutte le vittime». E allora perché ci sarebbe stato, in fase di indagine un travisamento così importante della realtà? La risposta della commissione getta diverse ombre. «Innanzitutto si segnala che l’inchiesta sommaria attraverso la quale venne cristallizzato l’impianto accusatorio del procedimento penale di primo grado fu affidata alla Capitaneria, quindi a un ente direttamente coinvolto». Il documento è firmato da quattro ufficiali ma solo uno, il presidente della commissione Raimondo Pollastrini, «fu estraneo agli accadimenti tra il 10 e l’11 aprile 1991». Dall’inchiesta sommaria – consegnata 20 giorni dopo l’evento – «emerge un quadro di informazioni che viene trasferito senza ulteriori variazioni sostanziali negli atti successivi: posizione e movimento del banco di nebbia, rotta e velocità del traghetto, responsabilità del personale di guardia del traghetto» per non aver visto la petroliera. Questi che dovevano essere orientamenti da approfondire «hanno orientato l’attività di indagine e condizionato l’esito dei procedimenti che sono seguiti negli anni, suscitando valutazioni critiche della Corte d’Appello».

 

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Lo stesso magistrato che ha guidato la fase iniziale dell’inchiesta, Luigi De Franco, ha raccontato alla commissione di aver parlato con l’allora procuratore capo chiedendogli il supporto di un collega per essere sollevato dal lavoro ordinario. Cosa che avvenne per sole due settimane. «Questo dato – osserva la commissione – e la limitatezza di mezzi di una piccola procura sono all’origine di molte delle difficoltà nelle indagini, ovvero di una forte sensibilità alle enormi pressioni di cui sembra essere stata oggetto, sia in termini diretti, dai familiari delle vittime, sia in termini ambientali. Pressioni che sono state in parte governate ma che restano evidenti e infine probabilmente determinati nella scelta, tutta personale, (il riferimento è al magistrato) di non celebrare il processo dopo aver iniziato e concluso le indagini accettando il trasferimento alla procura al tribunale del lavoro)». È questo il percorso che induce la commissione a sostenere come «le modalità di indagine abbiano condizionato in maniera determinate la possibilità di fare luce su alcune ipotesi, a partire dalla inadeguatezza dei soccorsi».

 

LA RELAZIONE INTEGRALE DELLA COMMISSIONE D'INCHIESTA

 

 

Intervista al sopravvissuto: «Mi salvai camminando sui corpi»

 

Si salvò camminando sui cadaveri, vagando per i percorsi della nave rovente come sui sentieri rocciosi dell’inferno. Si difese alla meglio dall’aria incandescente, filtrando quel po’ di ossigeno con gli stracci imbevuti d’acqua e rifugiandosi a poppa. I suoi occhi, abbagliati dal fuoco e arrossati dal fumo, non vollero chiudersi: il loro destino era di restare gli unici testimoni dell’immane tragedia del Moby Prince. Il mozzo Alessio Bertrand, al suo primo viaggio, scampò alla morte gettandosi in acqua quando arrivarono i soccorsi, mentre il traghetto bruciava e l’equipaggio dell’Agip Abruzzo scopriva quanto fragile sia la vita dell’uomo e quanto imprevedibile il futuro.

 

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«Mi ricordo tutto, come fosse ieri - racconta Bertrand -. Eppure sono passati vent’anni. Quell’incubo non vuole abbandonarmi». Il suo sguardo è sfuggente, gli occhi non si fermano mai. Siede a un tavolo di casa dagli intarsi finti e stampati, nell’ingresso dominato da uno specchio con la cornice rococò pitturata d’oro. Dal quel tragico 10 aprile 1991 la sua vita è cambiata: «Prendo psicofarmaci, altrimenti non dormo. La psicoterapia da sola non basta - sussurra -. Non ho più il coraggio di guardare il mare, quando sento il rumore delle onde mi sale lo sgomento».

 

Antonio Giaconi, il magistrato che a lungo ha seguito le indagini sul rogo del Moby Prince, ricorda che nonostante l’antefatto fu molto preciso nelle descrizioni e che la sua ricostruzione fu fondamentale per l’indagine: «Durante la deposizione scoppiò in un pianto dirotto. Fummo costretti a sospendere il colloquio e con grande difficoltà arrivammo alla fine. Per forza di cose fu un racconto terribile, che però registrammo per intero».



La famiglia Bertrand oggi vive della pensione erogata dalla Cassa marittima. Nessuno lavora, neppure Raffaella Ascione, la moglie che Alessio definisce una santa donna. Perché? «Mi sopporta - risponde l’ex mozzo -. Tollera i miei sbalzi di umore, gli alti e bassi imprevedibili, i lunghi silenzi, gli immotivati scoppi di rabbia.

 

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E quella notte? Quello schianto che trasformò il traghetto in una bara incandescente per 140 persone? Le urla, il fuoco, il silenzio irreale dopo che tutti, tranne lui, persero la vita? «Non me lo chieda, parlarne è troppo doloroso - sibila Bertrand abbassando gli occhi -. Per favore. E’ un incubo che non mi abbandonerà mai più. Io non sono più quello di prima, quella tragedia mi ha fatto diventare un uomo diverso. Forse peggiore». Lo scorrere del tempo gli ha ferito l’anima senza incresparne il viso. Ha una faccia piena, proporzionata al corpo massiccio. Eppure l’unico scampato al rogo del Moby Prince dà la sensazione di avere ben più dei suoi 44 anni. «Ogni tanto viene a tagliarsi i capelli - racconta il barbiere sotto casa -, parla e scherza. A un certo punto si ferma e fissa qualcosa nel vuoto. Il pensiero vola».

 

Storia di Cristina, primo viaggio da hostess sulla nave sbagliata

 

Una bella ragazza alta, sportiva, che sognava di diventare avvocato ed era iscritta a Giurisprudenza da due anni, ma voleva pagarsi gli studi lavorando. Quel giorno Cristina Farnesi uscì di casa orgogliosa della sua divisa blu da hostess, accompagnata al porto da babbo Enzo, dove l’aspettava la Moby Prince: sarebbe stato il suo primo viaggio a bordo, diretta a Olbia. In realtà sino a due giorni prima sapeva che il suo debutto col mare sarebbe avvenuto sulla Moby Love, servizio per la Corsica. Invece la defezione di una collega, poche ora prima del viaggio, fece sì che le cambiassero destinazione. «Che vuoi che sia», commentò Cristina. «Anzi, meglio, sarò insieme a Priscilla Giardini e Liana Rispoli, le mie amiche...».

 

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«Eh sì, è andata proprio così...», sussurra Enzo, mettendosi le mani sulla fronte. «E guarda - mi dice fissandomi -, questa è la prima volta che trovo la forza di raccontarlo. In quei giorni credevo d’impazzire. Quando mi mandarono in pensione perché avevo già quarant’anni di servizio chiesi e ottenni di continuare la mia professione di amministratore contabile in un grande magazzino di vestiario perché in mente avevo brutti pensieri, non so cosa avrei potuto combinare sapendo che Cristina e tutti gli altri potevano essere salvati. E così mi feci altri 12 anni di lavoro...»

 

Tre giorni dopo andò Enzo al riconoscimento. «Era stata trovata anche lei nel salone De Luxe, quello costruito per reggere le fiamme per molte ore, ma lì _ alza la voce _ce li lasciarono per tutta la notte!».Cristina venne riconosciuta soprattutto per gli effetti personali: la moglei, Elsa,  porta una scatola. E tira fuori un paio di grandi orecchini e un bracciale entrambi di metallo anneriti. Poi un bottone della divisa e l’orologio. «Gli piaceva questo -dice Enzo -, è russo, in dotazione all’Armata Rossa, vedi la stella rossa. Ha resistito alle fiamme...»

 

(testi a cura di Sandro Lulli, Antonio Valentini, Mauro Zucchelli e Federico Lazzotti)

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