Vauro Senesi si racconta: «La maestra mi spinse a disegnare e mi cacciò col banco in corridoio»
Ricorda la giovinezza a Pistoia, il ritorno e l’addio: «Da ragazzo fui espulso da scuola per attività sovversive, c’era il Sessantotto...»
PISTOIA. Tra i pistoiesi illustri oggi incontriamo Vauro Senesi, il quale è nato nella città di Cino il 24 marzo 1955. Parliamo di un vignettista di fama mondiale, noto per la sua irriverenza. Lo è anche in questa intervista in cui non si smentisce ricorrendo non di rado al paradosso, dove si racconta senza fare sconti, neppure a se stesso.
«Fui cacciato dalla classe e spedito nel corridoio alle elementari grazie ad una maestra cui senza ironia debbo moltissimo. Da chierichetto fui mandato via dopo aver sbruciacchiato una devota con l’incensiere. Alle Magistrali mi espulsero per attività giudicate sovversive. Per Israele sono persona sgradita con divieto di ingresso. Tutte le tv mi hanno buttato fuori e non compaio da tempo».
Ribelle sì, ma con un cuore grande come una casa. Prova ne sia una sua vignetta carica di umanità che raffigura un bimbo mutilato dalla guerra. È citata nel libro “Spera”, l’autobiografia che Papa Francesco ha scritto poco prima di morire. Vauro si racconta al Tirreno mentre tiene in braccio due bassotte che sicuramente lo accettano.
Perché quando a Pistoia frequentava le Magistrali fu espulso?
«Avevo raggiunto le superiori a soli 13 anni. Eravamo ai tempi delle famose lotte studentesche (quelle dell’Autunno Caldo, Ndr). Forse era scritto che il Sessantotto non me lo dovessi perdere. Fomentavo le manifestazioni di quegli anni e fui cacciato. Riuscii però ad iscrivermi al Lorenzini di Pescia in cui mi sono diplomato addirittura con un anno di anticipo rispetto alla mia età anagrafica».
Quando è nata la sua verve espressiva?
«Alle elementari. Ero un casinista. Evito di citare il nome della maestra alla quale devo riconoscenza. Mi riteneva uno stupido e non aveva tutti i torti (ride). Disegnare era l’unica cosa che secondo lei un imbecille potesse fare. Il mio banco fu perciò attrezzato di pastelli a cera, matite, fogli e tutto quanto necessario e posizionato nel corridoio. Potevo disegnare e non rompere le palle. È vero che fosse una fascistona ma all’epoca ero troppo piccolo per saperlo. Mi ha dato una grande lezione: il disegno è una forma d’arte ed espressione e vale il rischio di essere buttati fuori».
Si può mantenere nel tempo la verve creativa e la sfrontatezza necessarie ad un vignettista?
«Parlando di me posso dire di essere passato dalla incoscienza adolescenziale alla demenza senile saltando tutta la fase della maturità. Ne sono felice visto che la medesima in Italia porta spesso a diventare opportunisti e conformisti. Ad adattarsi, inserirsi. Per fare le mie vignette serve una incoscienza totale, solo quella ti porta ad accettare mai il conformismo come forma di vita tanto meno di espressione».
Quali idee circolavano nella sua famiglia di origine?
«Era un nucleo cattolico, non bigotto e aperto. I miei erano separati. Sono cresciuto con mia madre e mio zio, che prima di spretarsi era un sacerdote operaio. Lavorava alla trafilerie Martinelli. Personalmente ho abbandonato la religione praticata a 14 anni dopo tutti i sacramenti. Avevo fatto perfino il chierichetto. Mi licenziarono da quel ruolo a causa di una gara con un altro chierichetto. Nella circostanza l’incensiere acceso mi sfuggì di mano colpendo una vecchietta. Non gli feci del male, solo qualche sbruciacchiatura, spero che sia andata in Paradiso grazie a me».
Quando lasciasti la città?
«Iniziai il servizio militare ad Aviano del Friuli durante il terremoto. Essendo già sposato con la moglie incinta ebbi l’avvicinamento alla Caserma Marini di Pistoia. Di quel periodo ricordo che tutti i giorni scappavo dal muro. Un contadino aveva l’orto sotto il muro e si preoccupava solo se non mi vedeva scavalcare nel suo campo. Dopo il militare ho insegnato in Candeglia e alle Frosini, la scuola in cui ero stato alunno. Facevo il maestro comunale quando le riforme miglioravano e non tagliavano la scuola. Ho esercitato a Pistoia per quasi quattro anni poi sono venuto via».
Chi ti ha insegnato l’arte del disegno?
«È una vocazione ereditata da mia madre, Ines Notarloberti, che era professoressa di disegno alle medie. In casa avevo tutti gli strumenti per conoscere la materia».
Che umore occorre per realizzare una vignetta?
«Si tratta di una espressione giocosa e nel gioco c’è sempre allegria. Eppure ora non riesco ad essere allegro. Avverto dentro l’urgenza di raccontare le tragedie del mondo. In cima ai miei pensieri c’è il genocidio a Gaza e tutta la manipolazione e disinformazione su questi fatti. Non riesco a far finta che l’orrore di questo secolo non stia avvenendo».
Roberto Benigni ha spiegato al figlio l’Olocausto in modo giocoso. Con “La vita è bella” ha vinto l’Oscar. Non credi possibile raccontare l’orrore con il sorriso?
«Quel film mi fa sorridere perché Benigni ha fatto giungere ad Auschwitz gli americani. Ha vinto la statuetta, ma se avesse rispettato un po’ la storia facendoci arrivare l’Armata Rossa non si sarebbe aggiudicato l’Oscar. A Benigni voglio bene, come dice lui di Berlinguer, ma devo dire che da tempo non evita di arruffianarsi. Pochi giorni fa era in Vaticano a fare San Pietro. Mi sembra una specie di icona istituzionale. La satira non va d’accordo con le icone tanto meno con le istituzioni. In questo Paese ci sono tanti ruffiani molto peggio di Benigni anche perché molto meno geniali. A lui riconosco tutta la genialità possibile».
Pistoia ha ispirato in qualche modo la tua arte?
«Sulla Divina Commedia Dante ha scritto: Pistoia gli fu Degna Tana. Il Sommo Poeta, si riferiva a Vanni Fucci (citato nei Canti XXIV e XXV dell'Inferno. ndr) per un delitto sacrilego. Ebbene, è stata la Degna Tana del Fucci, di Licio Gelli, Mamma Ebe e anche mia».
Da quanti anni manchi dalla tua città natia?
«Da parecchio non ci risiedo. Ogni tanto torno. A Pistoia abitano mia figlia Fiaba nome che ho inventato) di 47 anni e la mia ex moglie. Sono rientrate lì da oltre venti anni dopo aver vissuto nella Capitale. Fiaba lavora in una cooperativa che supporta il tribunale. È laureata in design di moda di architettura. Vista la situazione complessiva è già una fortuna che abbia un lavoro. Piaceva loro la città, anche se la mia ex moglie è veneziana. Vivo a Roma. Da 35 anni sono sposato con una signora cilena dalla quale ho avuto un figlio oggi 31enne, che si chiama Rosso. Nonostante la norma lo vietasse sono riuscito ad iscriverlo all’anagrafe con questo nome con uno stratagemma sul Rosso Fiorentino».
Attualmente per chi lavori?
«Sono ufficialmente in pensione, continuo a lavorare al Fatto Quotidiano e gratuitamente collaboro con la rivista dei comboniani Nigrizia».
Le tue vignette più pungenti del momento sono dedicate a quello che accade a Gaza, perché?
«No si può restare in silenzio davanti ad un genocidio. Ho scritto anche un libro “Io sono colpevole” composto con testi e vignette. Prefazione di Francesca Albanese e postfazione di Moni Ovadia. È uscito l’8 ottobre 2025. L’editore è Aliberti».
Qual è il tuo rapporto con gli ebrei?
«Non ho mai fatto confusione tra ebrei e il governo israeliano, credo che quella la faccia più e volontariamente Netanyahu che accusa di antisemitismo chiunque vada contro la sua politica criminale».
A cosa si può ascrivere tanto consenso ad Israele anche da noi?
«A potenti interessi economici. L’Italia vende e compra armi, tecnologia e quant’altro da Israele. Non sappiamo per quale serio motivo sia considerata l’unica democrazia in Medio Oriente, in realtà è un avamposto del neo colonialismo americano e occidentale in quella stessa area».
C’è una vignetta cui ti senti più legato?
«Quella evocata da Papa Francesco nel suo libro in cui non cita l’autore, ma il contenuto. L’avevo realizzata in Afghanistan quando c’era la guerra. Ero là con Gino Strada, mio caro amico. Andò in onda in una trasmissione di Michele Santoro. Il titolo della vignetta era: “Se volete capire che cos’è la guerra”. Raffigurai un bambino con una gamba amputata. Al posto della testa aveva una linea tratteggiata. Sotto era scritto: ritagliate la foto di vostro figlio e attaccatela qui. Imitavo un gioco da bambini, ma la guerra non è mai un gioco. C’è un bellicismo brutale, i nostri figli non devono assomigliare a quello della vignetta».
Cosa vedi nel tuo futuro?
«Sarò sempre in quel corridoio, un posto fantastico da cui vedo passare solo bella gente buttata fuori».
