Paolo Zampini, il flautista prediletto di Morricone: «La musica il mio primo amore poi la scoperta della Pistoiese»
Pistoia, 69 anni, è stato anche è direttore del conservatorio Cherubini. Da poco rientrato è rientrato nella sua città che lasciò giovanissimo: Dal 1964 la passione per gli arancioni, nata in un derby. Ho negli occhi il gol di Berretti
PISTOIA. Paolo Zampini è rientrato da poco nella sua Pistoia, che aveva lasciato da giovanissimo, dopo aver vissuto tanti anni altrove per seguire la grande passione per la musica, che lo ha portato perfino a vivere un trentennio all’ombra di Ennio Morricone e di altri insigni maestri e compositori. Nel suo curriculum c’è anche una lunga attività di docente culminata nella direzione del Conservatorio Luigi Cherubini di Firenze. Nei giorni passati ha tenuto a Pistoia un applaudissimo concerto in Sala Maggiore in onore di Marcello Melani, il presidente più amato della Pistoiese di tutti i tempi, perché, oltre a essere un grande artista, Zampini è sempre stato un tifoso arancione, e oggi è anche vice presidente del Centro Coordinamento Club Arancioni. Conosciamolo meglio in questa intervista.
Dove nasce Paolo Zampini e quale fu la sua infanzia?
«Un’infanzia vissuta con i ritmi delicati del mondo rurale. Vivevamo a Pistoia, ma io e mio fratello trascorrevamo l’estate a Sarripoli, dalla nonna paterna, e poi erano frequentissime le visite alla nonna materna e ai parenti in Valdibrana».
Arrivò prima la sua passione per la Pistoiese o quella per musica? E perché queste due passioni?
«Sicuramente arrivò prima quella per la musica, che io considero il vero nutrimento per la mia anima. Ricordo l’emozione fisica che provavo fin da bambino al passaggio di una banda musicale o ascoltando uno di quei complessi che si esibivano all’aperto d’estate alla pista dei Ferrovieri. Quella per la Pistoiese invece risale al derby con il Prato, credo nel febbraio 1964. Giornata piovosa, settore popolati di Monteoliveto: si vinse 1 a 0. Il gol di Berretti ce l’ho stampato negli occhi».
Un aggettivo per Marcello Melani, il presidente più grande della storia arancione quale potrebbe essere?
«Trascinatore».
Come si formò il Paolo musicista e perché il flauto?
«Ho iniziato seriamente lo studio della musica alla Banda Borgognoni, sul Parterre; poi alla scuola Mabellini, che allora aveva sede nei locali del teatro Manzoni. Il Conservatorio lo seguii in seguito, ma da privatista. Da bambino amavo la batteria, ma a 12 anni scoprii il flauto grazie a Ian Anderson: rimasi affascinato dalla morbidezza del suono nelle note basse».
I suoi primi mentori?
« Tanti. A Pistoia Libero Morosi, Marcello Bartolozzi, Rolando Vezzani. Poi a Firenze Mario Gordigiani e Roberto Fabbriciani».
Poi l’addio a Pistoia. Per andare dove?
«A Roma, dove per me si aprì il mondo della vera professione di flautista. A Roma conobbi Baldo Maestri, un musicista incredibile. Fu il vero mentore dei musicisti romani della mia generazione e anche il mio».
La professione che cosa le ha dato?
«A scuola sono stato un alunno disciplinato, curioso e studioso. Non feci altro che portarmi dietro queste caratteristiche. A Roma, suonando a fianco di musicisti eccezionali capii che, come nello sport, i sacrifici, lo studio, l’allenamento giornaliero, il rispetto per gli altri, sono fattori indispensabili per migliorarsi. Quindi la professione di fatto ha contribuito a consolidarmi umanamente».
Qual è stata la svolta?
«La vera svolta avvenne intorno ai 18 anni quando capii che avrei voluto vivere di musica. Viene tutto da quella presa di coscienza».
Come avvenne l’incontro con Morricone?
«Grazie a un carissimo amico romano iniziai a fare turni di registrazione per le colonne sonore. Iniziai con Franco Piersanti, poi con Luis Bacalov e Fiorenzo Carpi. In seguito arrivò anche Morricone con lo sceneggiato la Piovra».
E poi divenne il suo flautista prediletto.
«Con il tempo, ma non ero mica il solo! Apprezzava però la mia capacità di adattarmi ad ogni genere musicale e anche che sapessi improvvisare. Morricone amava visceralmente ogni strumento musicale e voleva vicini i suoi esecutori di riferimento».
Si ispira a qualche personaggio contemporaneo o del passato nella sua arte?
«Non propriamente. Ho però sempre cercato di ascoltare i consigli delle persone più esperte di me. Fortunatamente ne ho trovate tante».
Come era Morricone come uomo?
«Direi complicato ma anche molto facile da capire, perché non nascondeva mai il suo modo di essere».
Come nascevano le sue colonne sonore?
«Sicuramente attraverso uno studio rigorosissimo e una ricerca continua».
Il momento più bello e quello più brutto?
«Ho affrontato i momenti più belli senza esaltarmi e quelli più brutti cercando di risorgere al più presto, con nuovi obiettivi da raggiungere; anche se devo dire che suonare con Morricone alla Royal Albert Hall e con l’Orchestra di Santa Cecilia è stato davvero esaltante».
Com’era la vita mondana nel mondo dello spettacolo?
«In realtà non era una vita mondana, era semplicemente la nostra vita. Avevamo contatti continui con i grandi personaggi del cinema, del teatro e della televisione; ho anche suonato per dieci anni alla Corrida di Corrado e Pregadio. Due professionisti ineguagliabili e veri signori dello spettacolo. In quel contesto poteva accadere che si organizzassero piccole feste o cene in casa. Niente fronzoli, insomma. E l’indomani magari ci ritrovavamo in sala di registrazione con Fellini, Polanski, Tornatore. Recentemente ho scritto uno spettacolo: Generazione Morricone che racconta quel mondo e quei personaggi».
Vita da musicista e direzione dei conservatori come si conciliavano?
«Si conciliavano bene, direi. Tra i colleghi avevo ottimi collaboratori e consiglieri. Ed era stimolante confrontarsi giornalmente con loro e con gli studenti».
Quali i suoi sentimenti alla morte di Morricone e come lo seppe?
«Ero ancora direttore al Cherubini e mi arrivò una telefonata, non ricordo di chi. Mi misi a piangere e basta. Mi pareva impossibile. Pochi mesi prima, in occasione del concerto che tenemmo al Senato della Repubblica, era stato simpatico: “Ahó! Ma sei ancora sindaco a Firenze o t’hanno cacciato? ”» .
Da pensionato il ritorno a Pistoia dopo tanti anni con quali sensazioni e differenze?
«Mi sembra di essere tornato ragazzo, nel senso che apprezzo il minimalismo della piccola città e quelle piccole specificità che ancora resistono al tempo».
Pistoia e la musica che binomio sono?
«Pochi pistoiesi sono coscienti di quanto Pistoia abbia regalato alla musica. Pensiamo alla famiglia Manfredini, alla famiglia Tronci, a Teodulo Mabellini e in tempi moderni a Giacomo Freccia e Piero Piccioni, un altro grande musicista con il quale ho avuto l’onore di collaborare. Ma questo aspetto di Pistoia meriterebbe davvero un articolo a parte«.
E in generale la musica italiana che momento vive?
«Preferirei non parlarne, oppure sì, ma vorrei parlarne in concreto, ma con chi? Ci sono davvero politici che abbiano a cuore le sorti della musica in Italia?».
Concerti, progetti e una vita tutt’ora di successi. A cosa si debbono e come si esprime la sua proposta di oggi?
«Tanti progetti diversi, tanta curiosità e quindi tante scoperte; con l’organettista pistoiese Riccardo Tesi abbiamo appena terminato di registrare un album che raccoglie idealmente le nostre eredità musicali e ho suonato, con grande emozione, nel nuovo lavoro discografico di mio figlio Francesco, chitarrista Jazz».
Quali sono stati i riconoscimenti più significativi ricevuti nella sua vita artistica e professionale?
«Ho ricevuto tanti attestati di stima da colleghi e studenti e questo vale davvero molto per me. Di recente ho avuto anche un bellissimo riconoscimento: il premio internazionale “Schiaccianoci d’Oro” ad Agrigento (Capitale Italiana della cultura 2025) in una solenne cerimonia nella Valle Dei Templi al Teatro dell’Efebo».
E quali sono i concerti che ricorda con maggior piacere?
«Il primo da professionista, a vent’anni: 15 agosto 1976. Critica di Lorenzo Arruga sulla terza pagina del quotidiano “Il Giorno” di Milano. Gioia pura».
Cosa vuol fare da grande?
«Stupirmi ancora, proprio come un bambino».
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