Il Tirreno

Pisa

Il personaggio

Mister Lucescu, dall’Ucraina al ritorno a Pisa: «Ho allenato sotto le bombe, vi racconto Anconetani e l’esonero del 1991»

di Fabio Demi
Mircea Lucescu con Romeo Anconetani nella stagione 1990-91 (Foto Muzzi)
Mircea Lucescu con Romeo Anconetani nella stagione 1990-91 (Foto Muzzi)

L’ex tecnico nerazzurro e il viaggio in auto per tornare a casa in Romania da Kiev. «Quando c’è il Gioco del Ponte? Voglio venire per godermi lo spettacolo»

17 gennaio 2024
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PISA. Martedì 7 novembre 2023, ore 9.30 circa. «Buongiorno mister, che piacere risentirla dopo tanto tempo!». Risentirla è un parolone. In verità non sento nulla, se non una voce lontanissima che riconosco a malapena. Per forza. Quando mi chiama su whatsapp per concordare l’intervista che gli ho chiesto dopo l’annuncio del suo ritiro dal mondo del calcio, Mircea Lucescu si trova in macchina a Odessa, Ucraina, zona di guerra. Direzione Bucarest, Romania, cioè casa.

Riesco a captare qualche frase: «Dobbiamo ancora lasciare l’Ucraina, poi attraverseremo la Moldavia e saremo in Romania. Non so quando potremo fare l’intervista. Ma Pisa la porto nel cuore, Romeo Anconetani era un personaggio straordinario… Ciao». Quel viaggio allucinante da Kiev a Bucarest durò a lungo. Decine di ore con la paura di non farcela. Successivamente sono rimasto in contatto con Lucescu ma non ho più insistito per l’intervista percependo la stanchezza di un uomo provato dagli ultimi anni trascorsi ad allenare la Dinamo Kiev in mezzo al dolore, alle bombe, alla distruzione, ai lutti.

Nel frattempo, è successo che il mister ci ha ripensato: «Non mi ritiro più, voglio continuare». Lucescu lo ha confermato nella conversazione telefonica che finalmente abbiamo avuto venerdì scorso: «Ho rifiutato un’offerta dal Besiktas, ma a giugno probabilmente, se starò bene, mi rivedrete in panchina». L’ennesima zampata del “vecchio leone” che, alle soglie dei 79 anni (classe 1945), è pronto a rimettersi in gioco. La carriera e il palmares di Lucescu non sono una roba normale. Fanno venire la pelle d’oca. Ha allenato la Nazionale romena e quella turca, poi Dinamo Bucarest, Rapid Bucarest, Galatasaray, Besiktas, Zenit San Pietroburgo, Shakhtar Donetsk e Dinamo Kiev (è stato 12 anni allo Shakhtar e 3 alla Dinamo). In Italia si è seduto sulle panchine di Inter, Brescia, Reggiana e Pisa (1990-91, serie A). Un onore, per lo Sporting Club, far parte di questo elenco prestigioso, anche se l’avventura di Lucescu in nerazzurro fu breve e si concluse con un esonero.

La lista dei trofei conquistati, poi, lo colloca tra gli allenatori più vincenti di sempre, dietro soltanto a due mostri sacri del calibro di Alex Ferguson e Pep Guardiola. La statistica riporta una marea di scudetti, Coppe e Supercoppe: la bellezza di 37, in Ucraina, Turchia, Romania e Russia. Parlare di calcio e di Pisa con un personaggio del genere è una grossa soddisfazione. Avviso ai lettori. L’intervista è divisa in due argomenti diversissimi: una sofferta testimonianza della guerra in Ucraina (che non poteva mancare, perché Lucescu ha vissuto nel mezzo del conflitto per quasi due anni), e i ricordi pisani, che il mister giudica bellissimi tanto da promettere: «Presto verrò a visitare la vostra stupenda città». Ovviamente l’intervista si è svolta in italiano perché, per chi non lo sapesse, Lucescu parla sette lingue: oltre alla nostra e a quella natia, il romeno, inglese, spagnolo, russo, francese e portoghese.

Mister, lei è stato l’ultimo uomo di calcio straniero a lasciare l’Ucraina. Le fa onore.

«Ho resistito tanto lì. Molti andarono via già nel 2014, quando i russi occuparono il Donbass e la Crimea. L’Ucraina allora aveva un campionato importante, c’erano quattro squadre che giocavano ad alto livello, lo Shakhtar Donetsk, la Dinamo Kiev, il Metalist Charkiv e il Dnipro. Io allenavo lo Shakhtar, ma quando i russi attaccarono il Donbass, dovemmo lasciare Donetsk. Con lo Shakhtar ci trasferimmo a Kiev, dove abbiamo vissuto in condizioni difficili. Basti pensare che le partite in casa non le giocavamo nemmeno a Kiev, ma dovevamo prendere l’aereo e andare in altre città dell’Ucraina, che è un Paese grande in cui le distanze sono lunghissime».

Rimase allo Shakhtar fino al 2016, poi tornò in Ucraina nel 2020 per guidare la Dinamo Kiev. Perché questa scelta?

«Quelli della Dinamo mi chiesero di dare una mano e io accettai. Il primo anno andò molto bene, vincemmo il campionato, la Coppa d’Ucraina e la Supercoppa. Poi nel 2022 scoppiò la guerra ma decisi di rimanere, anche se giocavamo negli stadi senza spettatori, non potevamo più usare l’aereo e dunque ci volevano 9-10 ore di viaggio in pullman per andare a giocare. Poi la seconda parte del campionato non si disputò e allora andammo in Europa per alcune partite a favore della pace, di cui fui il promotore. Pensavo che la guerra finisse, che non durasse tanto, e nel frattempo il calcio avrebbe risposto a un bisogno di sopravvivenza della gente: qualche minuto di svago per sopportare meglio la terribile realtà dei tanti ragazzi ammazzati. Ecco perché non scappai. Andarono via 14 giocatori, non mi arresi e rifeci la squadra con i giovani. Volevo stare vicino a loro in questa brutta situazione, tanti giocatori sono cresciuti con me, sono forti e faranno carriera. Però quando si sono intensificati i bombardamenti sulle città, non ce l’ho fatta più. Da casa mi chiamavano tutti i giorni, preoccupatissimi. Così a novembre sono venuto via, il viaggio è stato difficile ma alla fine sono arrivato a Bucarest».

Ok, alleggeriamo la tensione e passiamo ai ricordi pisani…

«Volentieri. Romeo Anconetani è un personaggio che non si dimentica mai. Mi cercò per anni, a partire dal 1983, quando sulla panchina della Romania eliminai l’Italia dal campionato europeo. Vincemmo 1-0 a Bucarest, fu un trionfo davanti agli azzurri campioni del mondo. Insistette sempre tantissimo, e qualche anno dopo mi convinse a firmare quando ero in Jugoslavia per una partita di Coppa Uefa tra la mia Dinamo Bucarest e il Partizan Belgrado. C’era anche Corioni che mi voleva a Bologna».

Lei e Romeo avevate un ottimo rapporto. Giusto?

«Sì, anche se non sempre era facile lavorare con lui. La mattina mi chiamava in sede e mi teneva lì fino all’ora dell’allenamento, poi pranzavamo insieme. Era un padre padrone che amava circondarsi di persone, gli piaceva parlare, era molto legato ai giocatori, ci portava a Montecatini e ci riempiva di regali. Io venivo da un Paese in cui il calcio era a livello poco più che amatoriale, con lui ho conosciuto il professionismo, Romeo mi ha insegnato tanto, a Pisa ho imparato moltissimo. Era un personaggio eccezionale, di grande personalità e intelligenza, eccellente organizzatore, conosceva il mondo del calcio e i giocatori come le sue tasche. Non dimentico che il Pisa è stato il mio primo team in Italia, ne conservo un ricordo speciale».

Però poi la sua avventura a Pisa finì male, Anconetani la esonerò, e comunque la squadra retrocesse ugualmente.

«La squadra giocava bene, impressionava. Iniziammo alla grande espugnando Bologna, poi vincemmo 4-0 con il Lecce e pareggiammo con il Genoa. Eravamo nella parte alta della classifica, quando si perse a Napoli con un gol al 94’ (ma allora le partite finivano al novantesimo). Gli errori in difesa ci costarono sconfitte pesanti a Milano con l’Inter e a Genova con la Sampdoria, però, ripeto, giocavamo un buon calcio, anche se c’era bisogno di rinforzi. Poi a marzo perdemmo una partita a Cagliari e Anconetani mi mandò via. Non mi aspettavo l’esonero».

Forse senza il grave infortunio di Piovanelli il Pisa si sarebbe salvato?

«Sicuramente. Quando si fece male, Piovanelli era il capocannoniere del campionato, essendo un attaccante congeniale al mio gioco molto offensivo. Se ci fossimo salvati, l’anno successivo Anconetani avrebbe potuto usare i soldi incassati dalle cessioni di Piovanelli alla Juventus, di Padovano al Napoli e di Neri alla Lazio per potenziare la squadra, soprattutto in difesa. Sarebbe stata tutta un’altra storia».

Segue il Pisa di oggi?

«Un po’. Mi sembra che quest’anno l’importante sia rimanere in serie B. Ma, aldilà del calcio, voglio venire a Pisa per visitare le sue meraviglie. Sai, da allenatore la vita era divisa tra sede, campo di allenamento, stadio e casa, non c’era il tempo di vedere le bellezze della città. Penso di venire in primavera. Ma dimmi, la fanno sempre quella cosa sul ponte, come si chiama…».

Il Gioco del Ponte… sì, c’è ancora.

«E quando c’è?».

A fine giugno.

«Se sarò libero, verrò per vedere quello spettacolo. Intanto saluti a tutti i pisani, ai tifosi, vi ricordo con grande affetto!».


 

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