Il Tirreno

Livorno

Il ricordo

Basket in lutto a Livorno. Ciao Sugar, grazie dello spettacolo: ammirarti è stato un vero onore

Sugar Richardson in maglia Baker
Sugar Richardson in maglia Baker

A 70 anni si è spento Micheal Ray Richardson, stella per due stagioni a Livorno Canestri e vita spericolata: così lo descriveva il nostro Renzo Marmugi

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Il suono della sirena è arrivato a 70 anni. Dopo una lunga malattia. Ci lascia un vuoto Michael Ray Richardson, “Sugar” per tutti, dolce come quelle mani che hanno inventato e fatto stropicciare occhi.

Un campione sul campo, una vita spericolata fuori. Ha sbandato ma si è rimesso in carreggiata, come quando perdi palla ma ti tuffi per recuperarla. A Livorno Richardson ha regalato due anni e spiccioli di spettacolo a inizio anni ’90, con la sua maglia amaranto numero 20. Un diamante incastonato in quell’obbrobrio che fu la fusione. Ha giocato fino a 46 anni, tornando poi negli States per allenare, lavorando principalmente nelle leghe minori americane.

Se Sugar ha fatto innamorare una generazione di livornesi, Renzo Marmugi ha fatto innamorare del basket almeno due generazioni di lettori. La penna inarrivabile del palla a spicchi livornese aveva uno splendido rapporto con Richardson.

Il modo più bello ed emozionante di tornare a quei giorni, è proprio rileggere ciò che scriveva Renzo Marmugi di Sugar. Pennellate davvero indelebili. (a.b.)

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LIVORNO. “Livorno chiama, Michael Ray Richardson risponde. Due necessità s'incontrano e si capiscono al volo. Una telefonata domenica sera in Costa Azzurra e Sugar ieri mattina era già a Nizza, pronto a salire sul primo aereo per l'Italia. Scende a Firenze, un'ora dopo è in via Pera, a tirar giù dallo scaffale un libro chiuso cinque anni prima. 44 anni compiuti l'11 aprile, in attesa della pensione da giocatore NBA (10mila dollari al mese, gli arriverà nel 2000) non rinuncia a sfidare il destino e la legge del tempo. Il parquet, il rumore di un pallone che rimbalza, quelle mani da pianista sull'oceano pronte a domarlo e accarezzarlo. Una vita in pochi gesti, eterno vizio che non sente ragioni. Quell'altro vizio se l'era lasciato alle spalle nel 1986, pronto a dire ho sbagliato («la droga? E' stata colpa mia e di nessun altro, David Stern ha fatto il suo lavoro, doveva squalificarmi...»), a non cercare scuse banali.

Talento enorme, prima scelta NBA - lo chiamarono da numero 4, prima di un certo Larry Bird - otto campionati nei pro divisi fra i New Jork Knicks e i New Jersey Nets, quattro volte convocato nell'All Star Game, tre volte re delle palle recuperate nel campionato più bello del mondo. Due anni all'inferno, bandito per uso di cocaina, poi l'inizio della seconda vita. Virtus Bologna, tre annate esaltanti seguite da un altro burrascoso addio, avvelenato dai sospetti. Nel 1991-92 gioca da straniero nella Slobodna Dalmacija Spalato, in esilio a La Coruña per i venti di guerra che già soffiavano sulla ex Jugoslavia, quindi sbarca a Livorno, dentro una «sinergia» mai digerita dalla città. Altre due stagioni oltre i venti punti di media: saluta per andare ad Antibes, dove in tre campionati vince uno scudetto francese.

Ma ha l'Italia nel cuore e accetta al volo la chance di Rieti-Battipaglia, un bluff di società che lo lascia presto a piedi, in tasca qualche assegno che non riuscirà mai a riscuotere. Allora, quasi a metà stagione, accetta il contratto che gli viene offerto da Cholet. E' ancora integro (14 punti in 34' di media) e quando la Montana Forlì lo chiama non sa dire di no. Nel frattempo è diventato cittadino italiano, una delle sue quattro mogli era bolognese, può tornare come uno di noi. Le cifre del 1998-'99 parlano chiaro: 32.3 minuti, 11.5 punti, 4.5 rimbalzi, quasi 2 assist a partita, il 43.4% nel tiro da due, 29.1% da tre, 75% dalla lunetta. In Romagna gioca tantissimo, forse anche troppo. La Montana esce in semifinale playoff proprio contro Livorno. Sugar toppa la prima partita, ma recita seconda e terza da protagonista, è l'ultimo ad arrendersi, quando esce lui la luce si spegne. Tre compagne diverse, quattro figli: la più grande (Tosha) lo ha già reso nonno, l'ultima ha appena due anni. Si chiama Kimberly, lui la coccola come un babbo premuroso, la tiene nel cuore e tatuata sul braccio destro. E' nata dall'unione con Ylam, conosciuta ad Antibes e sposata di getto. Una donna splendida, altra costante della sua vita spericolata, di eterno ragazzo dal cuore d'oro, facile all'euforia e alla depressione.

Dovunque è andato ha fatto breccia nel cuore della gente. E' una calamita, un leader, anche a Livorno aveva lasciato ottimi ricordi e ora torna per riprendere quel filo. Tecnicamente non si discute, anche a 44 anni suonati, record assoluto di longevità (SuperDino Meneghin, questa partita l'hai persa), Michael Ray può dare molto alla causa amaranto. Paolo Moretti era un ponte proiettato sul futuro, Richardson è il presente, la scossa capace di risvegliare una città dai suoi dubbi esistenziali. Una ventata di freschezza e di lucida follia dentro un ambiente ideale per chi ci lavorava, ma troppo freddo fuori, abituato a vivere fra colletti bianchi e regole da collegio. E' vero, nello sport bisogna soffrire, sudare, credere ciecamente in quello che si fa, convinti che un allenamento duro è l'unica ricetta per il successo, ma bisogna anche saper trasmettere qualcosa.

Sugar in questo momento è la scommessa che la Livorno Basket decide di giocare. Un tipo difficile da supportare, aiutare, coinvolgere, anche limitare negli eccessi imponendogli un contratto di ferro. Ma lo sport è gioia, istrionismo, vibrazioni. Pozzecco, i suoi capelli da matto e lo scudetto di Varese hanno fatto bene all'intero basket italiano, il personaggio Richardson può fare del bene a Livorno. Sugar entra in una squadra di bravi ragazzi per giocare minuti di qualità (i primi e gli ultimi dei due tempi, 22-25' a partita), con Burini play, Myron Brown guardia e lui numero 3, accanto a Podestà e al pivot americano che verrà. Santarossa potrà alternarsi con Richardson e con l'ex pesarese Brown, persona serissima, tutto casa e palestra, un nero per caso. E' una scommessa che vale la pena di tentare”.
 

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