Livorno, trenta volte il Memorial Berardo: «Quella tragedia ora è il nostro Natale»
Il giovane morì nel 1993 durante un’escursione: martedì 26 luglio inizia il torneo per ricordarlo. E quelli che erano bambini sono diventati adulti Ma una volta l’anno tornano insieme
LIVORNO. Un mese fa Sergio ha portato suo figlio Leonardo alla chiesa dei Sette Santi. Varcando il cancello gli ha spiegato che qui, insieme agli amici del quartiere, era cresciuto rincorrendo un pallone spellato dalle puntarolate. Il giorno dopo ha inviato sul gruppo del torneo una foto dove si vede un bambino che corre, senza palla, verso la porta. Chissà cosa sognava Leo in quel momento. Noi – alla sua età – sognavamo, in un giorno che non è mai arrivato, di essere Jorge Campos, Maradona o Fernando Couto. Finivano gli anni Ottanta e si spalancavano i Novanta. A merenda, mezzi di sudore, trangugiavamo aranciata Billy accompagnata da un Soldino del Mulino Bianco, una specie di un sasso di cioccolato. E correvamo in sella a una Bmx con gli ammortizzatori colorati, perché la mountain bike non era ancora messa sul mercato. Quel campino, oggi, è un po’ come quel gruppo di amici che passavano intere giornate insieme giocando: cambiato, ma sotto – se guardi bene, in mezzo all’erba – è lo stesso di allora. Con i sassi affilati che spuntano dal terreno, le porte strette e lunghe di cui (per fortuna) è stato buttato via lo stampo, e quella rete sempre troppo bassa dal lato dell’albero, o troppo bucata dall’altro, per contenere la svirgolata del più scarso. Ma se chiudi gli occhi puoi sentire ancora il rumore del pallone che incoccia la traversa, le urla del prete e il sapore della terra che d’estate si alza dopo un contrasto.
In quel rettangolo di vita spensierata, un giorno di luglio del 1993, quel gruppo di amici divisi tra villa Lloyd e San Jacopo, poco più che bambini, appena adolescenti, hanno conosciuto la faccia del dolore senza sapere, prima, che volto avesse. Perché a 12, 13 o14 anni, certe cose è meglio non saperle, non provarle. Invece ecco la vita che ti spiega che il mondo è tante cose. Anche brutte. Che non ci sono solo giochi e sogni, merendine e braciole su ginocchia e gomiti.
Di quel giorno in cui Berardo se n’è andato durante un’escursione con i boy scout, ognuno di noi conserva – a distanza di ventinove anni – il suo ricordo. Il modo, il luogo e la persona che glielo ha detto, che ha cercato di spiegare, di alleviare l’incredulità. È stato il nostro 11 Settembre.
Nei giorni che seguirono, tra le lacrime e il buio, potevamo scegliere che cosa fare dopo: provare a dimenticare o cercare di ricordare insieme. Senza saperlo, abbiamo fatto di più. Abbiamo continuato a correre con un pallone tra i piedi, a essere uniti, a tirare e parare giocando con Berardo. Per Berardo. Noi siamo cresciuti, invecchiati. Lui è rimasto lo stesso: un’acciuga col caschetto, gli occhi vispi e i denti grandi. Ma così, oggi, siamo ancora insieme. Anno dopo anno, quel torneo, quel Memorial Berardo Battaglieri, è diventato il nostro Natale: la festa estiva da trascorrere con la famiglia che abbiamo scelto. Di cui vogliamo fare parte. Una parentesi dentro alle nostre vite incasinate, fatte di problemi, delusioni, vittorie e soddisfazioni. Perché una volta ogni 365 giorni torniamo quelli dei Sette Santi, della Coppa Lloyd, di scuolina, di villa, delle stesse prese in giro.
«Ci sei al torneo?». È la domanda che ci si fa a vicenda da marzo in poi, quando incontri uno di famiglia. E come nelle famiglie, ci sono i padri che si prendono più responsabilità: Riccardo, Nicola, il Razza che tengono le magliette a casa durante l’anno, prenotano i campi, fanno la conta. C’è chi non manca mai e chi lascia per poi tornare. E poi ci sono i rituali, una specie di liturgia tutta nostra. Le solite magliette: bianche, verdi e gialle, prima c’erano anche i blu, ma sono stati cancellati dagli anni che passano. Intorno al campo gli striscioni con il tuo nome: Berardo. Prima di ogni partita facciamo un minuto di silenzio, poi ogni tanto qualcuno sbrocca ma è solo perché l’ossigeno si dirada e perdere non piace a nessuno, come succedeva ai Sette Santi. C’è Furio che ogni anno consegna le medaglie e cerca di non commuoversi. Ci sono genitori diventati nonni, e nuovi figli. Ci sono soprattutto babbo Berardo e mamma Silvia a guardare ogni partita. Vedono noi e abbracciano te, Berry. Ma oggi dopo 29 anni e trenta edizioni è il momento per noi di ringraziarti. È vero, sembra un paradosso, un controsenso. Ma invece è così. Senza di te, oggi non saremmo qui. Ci saremmo persi, come succede a tutti gli amici di quartiere: crescono insieme, si trasferiscono, magari vanno ad abitare altrove. E si perdono. Conservano ricordi, ma non condividono nient’altro. Abbandonano un presente insieme. Il regalo che hai fatto è costringerci a non lasciarci. A non abbandonare quel bambino che rincorreva un pallone al tuo fianco. Eppure, quando si arriva a un traguardo come questo, 30 edizioni, è facile guardare al passato. Più difficile immaginare il futuro. Al contrario, questo momento, può essere una nuova promessa. Un nuovo inizio. Come chi si sposa una seconda volta dopo la prima. Ecco Berardo, non sappiamo per quanto, non sappiamo come. Ma noi ci saremo ancora. Per stare insieme di nuovo. Con te. E non dimenticare.