Il Tirreno

Livorno

L'INTERVISTA/ MASSIMILIANO ALLEGRI

Amo la mia città ma sto alla larga dalla sua panchina

Maria Antonietta Schiavina
Amo la mia città ma sto alla larga dalla sua panchina

"I miei miti? Maradona e Platini. Ma in realtà il mio maestro è stato mister Galeone a Pescara. Avevo iniziato facendo atletica, poi..."

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LIVORNO. Quarantadue anni, livornese, ex centrocampista, dal 2008 alla guida del Cagliari, Massimiliano Allegri, è considerato uno degli allenatori più interessanti del calcio italiano: c'è chi sussurra che in Sardegna resterà ancora per poco, gli squadroni lo vogliono. Di carattere refrattario alle regole ferree, istintivo, frenetico, con la maturità Allegri è diventato uno dei tecnici più attenti, metodici, scrupolosi del campionato. Ma anche un uomo che, messo nel cassetto dei ricordi il "ragazzaccio", capace di mandare all'aria un matrimonio con i testimoni ormai sull'altare solo per non perdere la sua libertà, è padre attento di una ragazza di 15 anni, Valentina, che si ostina a definire «la mia bambina» e pensa soltanto a seguire un percorso in salita, con quel pallone inseparabile compagno dell'infanzia nel cortile di casa a Coteto.

Intanto complimenti per la "Panchina d'oro", un premio assegnatole da altri allenatori: più che meritato, visto che fra colleghi non siete molto teneri.
«Non sta a me dire se mi sono meritato o no il riconoscimento. Certo ne vado orgoglioso, è una grande soddisfazione soprattutto perché alleno in serie A da poco tempo».

Contento di aver battuto un grande come Mourinho dato per vincitore dalle previsioni?
«Non sono contento perché l'ho battuto, ma perché a votarmi sono stati allenatori importanti».

Lui come l'ha presa?
«Non credo bene, ma a me non ha detto niente, non ci siamo neppure incrociati. A parte il fatto che Mourinho non ha bisogno di avere la "Panchina d'oro": vince tutte le domeniche e vince i campionati, perciò le sue soddisfazioni, meritatissime, se le prende».

Non le chiederemo per chi ha votato lei.
«Il voto è segreto».

Prima di allenare il Cagliari, dove ha anche giocato dal '93 al '95, si vociferava di altri trasferimenti più importanti. Cosa c'è di vero?
«Erano solo voci perché io avevo già firmato il contratto con il Cagliari in aprile: dopo c'è stato un giro di panchine in cui hanno messo dentro anche me».

Allegri, quando ha cominciato a tirare il primo calcio al pallone?
«A 9 anni. Ai miei tempi si iniziava molto più tardi a giocare al calcio, mentre ora si comincia anche a 5 anni».

Ma è giusto?
«E' importante soprattutto che i ragazzini stiano insieme e facciano uno sport, che socializzino e imparino a confrontarsi. Oggi non si gioca più in cortile, si sta troppo davanti a tv e computer, l'unico motivo di aggregazione resta lo sport. Ed è anche importante che i ragazzi imparino a stare in panchina».

Lei c'è stato?
«Certo. Ero molto arrabbiato ma stavo zitto e facevo di tutto per dimostrare che ero il più bravo: la panchina per me rappresentava uno stimolo a migliorare».

La sua famiglia l'ha appoggiata come aspirante calciatore?
«Sì, anche se la prima volta che mi sono avvicinato a uno sport l'ho fatto con l'atletica. Poi però dopo due mesi ho smesso e mi sono dato al pallone. Mio padre era un podista, di calcio non capiva niente: ma non mi ha mai ostacolato e ha iniziato a interessarsi al calcio seguendo me».

Ha lasciato Livorno per rincorrere il sogno di diventare un campione. Ma cosa rappresenta oggi per lei la sua città?
«Livorno è casa mia, anche se Pescara, dove sono rimasto 4 anni e dove ho lasciato molti bei ricordi, è la mia seconda patria».

Si è sposato a Pescara?
«No, a Roma. Ma sono divorziato».

Con il matrimonio non ha mai avuto un bel rapporto. E' vero che ne ha mandato all'aria uno il giorno prima del "sì"?
«Vero. Avevo solo 24 anni e le idee un po' confuse».

Più avanti ha ceduto all'amore, si è sposato e ha avuto una figlia.
«Una bambina di 15 anni».

Una ragazza, vorrà dire!
«Per me è sempre la mia bambina».

Fa sport come il padre?
«Praticava nuoto a livello amatoriale, ma ha smesso da quando frequenta il liceo classico e deve studiare seriamente».

Torniamo al calcio e al suo ruolo di allenatore. Con i calciatori è severo o usa il metodo del dialogo?
«Il dialogo c'è, perché credo sia molto importante. Così come lo è instaurare un rapporto di rispetto dei ruoli. Essere troppo "generali" al giorno d'oggi non è possibile e poi non serve a niente. Però bisogna far capire alla squadra che ci sono momenti in cui c'è da lavorare. Lì non transigo, sono molto esigente. Poi, una volta terminato l'allenamento, ridivento compagnone, racconto aneddoti, barzellette...».

Quando si arrabbia dice le parolacce, alla livornese per intenderci?
«Mai. Non amo le parolacce e non le dico neppure quando ci vorrebbero».

Cosa le è rimasto della livornesità nel carattere?
«Tutto, anche se è cambiato il modo di parlare o di gestire. Ma se sto con i miei amici d'infanzia le battute sono le stesse di quando ero un ragazzo».

Amici d'infanzia che frequenta ancora?
«Certo, e sono le uniche persone che quando torno mi danno la serenità per staccarmi dalle pressioni e dai pensieri quotidiani. Con loro si parla d'altro, si lasciano tornare a galla i ricordi, si sparano un po' di cazzate...».

Fra i ragazzini che giocavano a pallone con lei un tempo, c'è qualcuno che ha continuato seriamente?
«Della mia generazione no, hanno fatto tutt'altro».

I suoi amici non le chiedono mai di tornare nel Livorno?
«Noooo!».

Se qualcuno dall'alto glielo domandasse, offrendole una grossa cifra, lo farebbe?
«Non credo. Ho un ottimo rapporto con la città, a Livorno sto bene, ho tanti amici e c'è la mia famiglia d'origine: i miei genitori, mia sorella. Ma per ora non ho intenzione di tornare, anche se giocare per la squadra della propria città o allenarla può far piacere a chiunque».

Vuole andare oltre.
«Bisogna guardare avanti, almeno finché si può».

Parliamo di miti. Quali sono stati i suoi nel calcio da ragazzo?
«Maradona, che per gestualità tecniche batteva tutti. E Platini: di un'altra categoria anche come persona».

E invece fra chi l'ha allenata da calciatore, con chi si è trovato più in sintonia?
«Con Giovanni Galeone: importantissimo nella mia crescita tecnica, sia di giocatore che di allenatore. Il tecnico che mi ha insegnato di più, soprattutto a livello tattico».

Per crescere anche nel calcio bisogna avere un ottimo maestro?
«Fondamentale, direi. Però Galeone non è stato solo il mio maestro, ma anche un grande amico e una persona alla quale sono rimasto legato affettivamente».

Le affibbiò il soprannome di "sentenza". Come mai?
«Esprimevo troppi giudizi senza riflettere abbastanza».

Anche ora lo fa?
«No. Con gli anni mi sono ammorbidito, grazie alla maturità e a mia figlia: da quando c'è lei ho molta più pazienza».

A proposito di pazienza. I tifosi livornesi non ne hanno molta. E quelli sardi?
«Di più. La passione è la stessa, ma a Livorno, anche se ora va un po' meglio, si è messa troppo in campo la politica: è stato uno sbaglio. A Cagliari poi c'è più rispetto e i tifosi sono meno entranti, mentre il livornese è particolare».

Pregi e difetti dei suoi concittadini.
«Il pregio è quello della bontà: di carattere il livornese è un buono. Ma ha il difetto di chiacchierare troppo e di essere esageratamente istintivo».

Prima di parlare non conta fino a 25.
«Neppure fino a quindici. Anche io ero uno che non contava: nemmeno fino a 5. Però adesso riesco ad arrivare anche a 40».

Chi se ne intende dice che lei fosse predestinato a diventare allenatore. Cosa risponde?
«Non so se è così, ma so che negli ultimi anni volevo fare l'allenatore e che, poiché in tutte le cose della vita ci vuole fortuna, ho avuto la fortuna di essere al momento giusto nel posto giusto, e cioè ad Agliana, dove ho incominciato ad allenare la squadra con risultati che mi hanno dato ragione».

Se oggi le dicessero di scegliere una squadra da allenare, a quale darebbe la preferenza?
«In questo momento sto volentieri con il Cagliari».

Ma al di là del Cagliari?
«Sono un pratico, la mia ambizione sarebbe quella di arrivare più in alto possibile. Io ce la metto tutta, poi si vedrà».

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