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Iperconnessione? Il “caso Livorno”, un bambino su tre ha il cellulare prima dei 10 anni: «Vi spiego perché i divieti non servono»

di Martina Trivigno

	(foto di repertorio)
(foto di repertorio)

Parla il primario Roberto Danieli (Pediatria): «Non demonizziamo la tecnologia, aiutiamo anzi i ragazzi a sviluppare un rapporto che sia sano e consapevole»

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LIVORNO. Un bambino livornese su tre ha uno smartphone prima dei dieci anni. Il dottor Roberto Danieli, primario della Pediatria dell’ospedale di Livorno, dal suo osservatorio speciale – i ricoverati in reparto – ha una visione privilegiata di un fenomeno che ora preoccupa. Lo dice la Società Italiana di Pediatria: bambini e ragazzi trascorrono troppo tempo davanti agli schermi. «Dobbiamo arginare l’iperconnessione non demonizzando la tecnologia, ma aiutando i ragazzi a sviluppare un rapporto sano e consapevole», sottolinea Danieli.

Dottore, cosa la colpisce di più del fenomeno?

«L’uso diffuso dei dispositivi tra bambini e adolescenti: nei più piccoli spesso è mediato dagli adulti e, non di rado, ha funzione consolatoria. Questo ci porta a prevedere in reparto attività alternative, come laboratori scolastici, clown therapy o pet therapy, per offrire esperienze che non passino solo attraverso gli schermi».

Ci sono dati che mostrano quanto sia diffuso questo fenomeno partendo anche dalla sua esperienza diretta nella Pediatria livornese?

«Sì. Il 60 per cento degli adolescenti ha ricevuto il primo cellulare tra i dieci e gli undici anni, e il 28 per cento addirittura prima dei dieci anni. Il 54 per cento inizia a navigare in rete tra gli undici e i 12 anni, e il 12 per cento addirittura prima dei dieci. Inoltre quattro adolescenti su dieci utilizzano i social in maniera problematica e oltre un terzo trascorre più di cinque ore al giorno sullo smartphone».

Un quadro chiaro che mette in luce quanto sostenuto dalla Società Italiana di Pediatria, cioè che bambini e ragazzi passano troppo tempo davanti agli schermi, sottraendo ore al gioco e allo sport. Perché succede?

«Oggi smartphone, tablet e connessioni veloci sono facilmente accessibili. Il telefono non è più solo un mezzo di comunicazione, ma uno strumento multifunzione: intrattenimento, scuola, socialità, informazione. Così per un ragazzo “esserci online” significa sentirsi parte del gruppo dei pari. I social network soddisfano bisogni evolutivi importanti in adolescenza: visibilità, approvazione, connessione continua e possibilità di sperimentare la propria identità. Questi meccanismi generano gratificazione immediata e rendono difficile staccarsi. Negli ultimi decenni, inoltre, si sono ridotti gli spazi di gioco libero e aggregazione spontanea».

Con quali conseguenze?

«I ragazzi escono meno, trascorrono più tempo in casa e in questo vuoto lo schermo diventa uno spazio sicuro e sempre disponibile. Anche i genitori, spesso molto impegnati, affidano alla tecnologia la gestione quotidiana dei figli. Infine, la didattica digitale, accelerata dalla pandemia, ha reso lo schermo uno strumento “necessario”, sfumando il confine tra studio e svago».

Cosa si può fare per (provare ad) arginare il fenomeno?

«Non servono divieti assoluti, ma limiti chiari e condivisi: definire tempi di utilizzo, spazi “liberi da schermi” (pasti, sera, camere da letto) e prestare attenzione all’età dei figli. Fondamentale dare il buon esempio: un genitore sempre con il telefono in mano manda un messaggio implicito molto forte. È utile parlare con i figli di cosa fanno online, cosa guardano e con chi interagiscono, e proporre alternative concrete: sport, attività creative, gioco all’aperto, momenti familiari condivisi».

E la scuola?

«Deve integrare l’educazione digitale: non basta usare la tecnologia, bisogna insegnare come e perché farlo. Serve educazione al tempo online, ai social, alle emozioni digitali e ai rischi dell’iperconnessione. Regolamentare l’uso degli smartphone a scuola, in modo chiaro e condiviso con le famiglie, evita conflitti e messaggi contraddittori».

Le istituzioni invece?

«Dovrebbero garantire attività sportive e culturali accessibili anche alle famiglie in difficoltà economica, promuovere campagne informative e sensibilizzare genitori e ragazzi sui rischi dell’iperconnessione e sui benefici di uno stile di vita equilibrato».

E i genitori dovrebbero essere più rigidi?

«No, devono essere più consapevoli e presenti. L’obiettivo non è togliere la tecnologia, ma insegnare equilibrio, autonomia e autocontrollo. I limiti sull’uso di smartphone, tablet e videogiochi sono necessari, soprattutto nelle età più giovani. Le regole devono essere chiare, proporzionate all’età e motivate: miglioramento della qualità del sonno, della concentrazione e della salute globale. Alcuni confini dovrebbero valere per tutta la famiglia: niente schermi durante i pasti, niente smartphone in camera di notte, spegnere i dispositivi almeno un’ora prima di dormire. Fondamentale è anche proporre alternative concrete. Dire “spegni il telefono” senza offrire altre attività è poco efficace. Sport, gioco all’aperto, attività creative e momenti condivisi aiutano i ragazzi ad accettare i limiti e sviluppare un rapporto sano con la tecnologia».

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