Pronto soccorso e il caos da codici verdi, il medico di famiglia: «Rispondiamo anche a 80 chiamate al giorno, le “colpe” sono altre»
Livorno, Massimo Angeletti: «Alcuni dei nostri assistiti agiscono in modo autonomo, bypassando i nostri consigli»
LIVORNO. «La medicina territoriale non può, non è che non vuole, intercettare tutte le persone che, in modo autonomo, scelgono di andare al pronto soccorso. Soprattutto se le armi che abbiamo sono diverse da quelle che ha l’ospedale che continua a offrire una serie di servizi a pioggia che, invece, dovrebbero essere ben modulati e selezionati per privilegiare chi ne ha davvero bisogno». Per Massimo Angeletti, coordinatore dei medici di famiglia livornesi e segretario provinciale della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg) di Livorno, la medicina del territorio risponde eccome alle tante richieste degli assistiti. Il problema, del pronto soccorso affollato, è che poi alcuni fanno di testa loro.
Dottore, perché tanti, troppi livornesi, si rivolgono al pronto soccorso? C’è una mancanza da parte dei medici di famiglia?
«Non è affatto così. Il problema è che chi va al pronto soccorso non ci va, se non raramente, su indicazione del medico, ma di sua spontanea volontà».
Come mai?
«I motivi sono tanti, ma non certo perché non ci trovano. Anzi, noi riceviamo un numero di contatti (telefonate, sms, mail, ndr) da parte dei nostri assistiti che varia dalle 70 alle 85 al giorno: come si può pensare non li seguiamo? Se i cittadini si rivolgono al pronto soccorso è perché sono spaventati dai tempi di attesa lunghissimi per fare gli esami che prescriviamo e dalla spesa che dovrebbero affrontare in servizi che nel privato costano di più».
Intanto però il pronto soccorso rischia il collasso.
«Lo sappiamo e, per questo, crediamo che gli accessi debbano essere regolamentati da scelte di programmazione e controllo. Non è possibile, e neppure attuabile, che un codice bianco occupi lo spazio, il tempo e la professionalità che gli attori del pronto soccorso dovrebbero invece dedicare a chi ne ha davvero bisogno. Purtroppo, però, i nostri assistiti agiscono in modo autonomo, bypassando i nostri consigli».
In che modo?
«Proprio in questi giorni un collega mi raccontava di un paziente che lamentava dolori articolari. Il medico gli ha risposto in tempo reale, dando indicazioni tra cui quella di una visita in ambulatorio. Il giorno dopo, però, il paziente è andato al pronto soccorso: sapeva che, dovendo fare una lastra, una visita ortopedica e magari una Tac, i tempi sarebbero stati lunghi».
E cosa è successo?
«Ha scelto autonomamente, senza che il medico glielo avesse suggerito, di andare al pronto soccorso dove ha ottenuto tutte le risposte in otto ore, pagando un ticket minimo. Serve un servizio dedicato a chi ne ha davvero bisogno, non un’offerta libera come avviene oggi. E lo dico non nell’interesse della categoria dei medici e degli infermieri, ma nell’interesse esclusivo della cittadinanza».
Parliamo delle Case di comunità: una volta tutte operative a Livorno potranno rappresentare un aiuto a decongestionare il pronto soccorso?
«Come medici di medicina generale non ci siamo mai opposti alle Case di comunità, ma ci siamo opposti a una medicina territoriale che prevedesse la maggior parte del suo tempo nelle Case di comunità. Vogliamo mantenere, infatti, un forte legame, anche in termini di tempo, dedicato agli ambulatori di prossimità alle persone, soprattutto quelle più fragili. Ben vengano le Case di comunità dove potremo prestare alcuni tipi di servizi, ma diciamo no all’esclusività delle Case di comunità».
A Livorno l’unico esempio di aggregazione di medici di famiglia, al momento, è alla Casa della salute all’Ardenza, in via del Mare: come sta funzionando?
«I colleghi stanno lavorando bene, offrendo anche servizi aggiuntivi alla popolazione. Si tratta di aspettare, ora, che vengano aperte le prossime strutture. È chiaro che dobbiamo modulare questa nostra presenza con un'attività territoriale che deve restare saldamente in mano al medico che lavora nei quartieri e non soltanto nelle Case di comunità che sarebbero un centro dedicato ad alcuni servizi ma non certo a tutti. Altrimenti si rischierebbe di snaturare il medico di famiglia che diventerebbe un burocrate e il suo ambulatorio un “ricettificio”, perdendo completamente il rapporto empatico che abbiamo con i nostri assistiti».
Si parla tanto adesso della riforma della medicina generale che prevederebbe che i medici passino da convenzionati a dipendenti: cosa ne pensa?
«La soluzione della dipendenza eliminerebbe una figura storica e molto amata dalla popolazione con perdita del rapporto fiduciario che scadrebbe in un mero rapporto burocratico, facendo cadere la parte di conoscenza e rapporto umano che da sempre è al fondamento del nostro lavoro. Per questo ci opponiamo».