Il Tirreno

Grosseto

La nuova forma di Grosseto segua la sua reale vocazione Che è la modernità

mauro papa* ; *Direttore di Clarisse Arte
La nuova forma di Grosseto segua la sua reale vocazione Che è la modernità

Mauro Papa, direttore di Clarisse Arte, ripercorre la storia della città e invita ad abbandonare l’immagine stantia della Maremma  

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l’intervento

mauro papa*

A Grosseto è iniziato il lavoro di revisione del Piano strutturale e di definizione del Piano operativo. Per accompagnare questo lavoro può essere opportuno rinnovare il dibattito culturale sull’identità e la vocazione del nostro territorio, necessario non solo alla pianificazione urbanistica ma anche allo sviluppo sociale ed economico della nostra città.

Si può ripartire, ad esempio, da alcuni spunti e riflessioni che solo due mesi fa sono emersi all’attenzione dell’opinione pubblica quando, sulla proposta regionale di candidare il paesaggio della Bonifica Maremmana come bene tutelato dall’Unesco, si è verificato un vivace scontro di opinioni tra Italia Nostra e la stessa Unesco: cosa va salvaguardata e recuperata, la stereotipata e perduta Maremma amara della “transumanza e delle paludi” o la successiva e ancora oggi visibile Maremma dolce, aperta e bonificata? L’atavico scontro tra recupero acritico della tradizione (spesso inventata) e uso critico della storia sembra oggi tornare di moda e rimettere in discussione ciò che la contemporaneità produce in termini di innovazione e progetto di futuro. Ad esempio, una ventata di aria fresca si è insinuata in questa rinnovata contrapposizione con l’illuminante convegno “Cultura, comunità e lavoro” che, a Follonica, qualche settimana fa ha messo al centro dell’attenzione la rigenerazione urbana come modello di sviluppo per educare al cambiamento. In quella sede è riecheggiata una splendida citazione di Adorno: “Il problema non è il ritorno al passato, ma rispettarne le promesse”. La stessa prospettiva di ineluttabilità del futuro ha motivato una residenza d’arte organizzata un mese fa dalla struttura che dirigo – Clarisse Arte di Fondazione Grosseto Cultura – per invitare cinque giovani artisti da tutta Italia a frequentare il centro di Grosseto, a dialogare con la sua comunità e a progettare interventi creativi per fornire nuovi spunti di valorizzazione e conoscenza. Infine di grande interesse è stata la riunione del Tavolo del centro storico che il 14 marzo ha invitato istituzioni culturali e associazioni di categoria a confrontarsi con l’amministrazione comunale sulla definizione del Piano operativo.

Parto proprio da quest’ultima esperienza per evidenziare alcuni spunti originali che, a mio avviso, possono rappresentare il vero motore di un eventuale nuovo dibattito. Alla posizione di coloro che sostengono la necessità di “restituire una vocazione storica” al centro storico, riqualificando l’arredo urbano e tutelando – anche con un “piano del colore” – tutte le realtà in esso comprese, qualcuno ha opposto la constatazione che, fino a qualche decennio fa, dentro le mura cittadine esistevano ancora vaste zone di campagna che sono state urbanizzate solo in tempi recenti. Partendo da questo dato, è stato inoltre evidenziato come Grosseto sia l’unica città toscana con un centro storico privo di una omogeneità architettonica (e di colore) proprio perché “centro in gran parte moderno” e non tutelato da vincoli di soprintendenza. Un centro storico che, di fronte alla necessità di essere ripopolato, dovrebbe evitare interventi imbalsamatori o di semplice cosmesi per rinnovare il patrimonio edilizio con interventi coraggiosi ed ecosostenibili. Questa visione progressista esprime una chiara presa di coscienza su tre possibili vocazioni della città: la vocazione di Grosseto all’accoglienza (ne abbiamo assoluto bisogno, la popolazione della provincia è la più vecchia in Toscana); la vocazione di Grosseto alla trasformazione e alla modernità (anche in campo enogastronomico); la vocazione di Grosseto a essere città rappresentativa della Maremma verde e scarsamente antropizzata, quindi città con vocazione ecocompatibile (già oggi è l’ottava città in Italia con più piante: 28 ogni 100 abitanti). È la visione in cui mi riconosco: Grosseto è la città che nel Novecento ha avuto il più grande e imponente incremento demografico in tutta la regione. Senza scomodare ancora una volta Luciano Bianciardi e la sua “città aperta al vento e ai forestieri”, la Maremma è stata terra di rilevanti fenomeni immigratori (Alfio Cavoli diceva che tutti i maremmani, nessuno escluso, affondano le loro radici etniche e familiari altrove) e il suo presunto capoluogo – città “malgrado” come diceva il sociologo urbano Gianfranco Elia – è stato, fino alla seconda guerra mondiale, solo un borgo rurale e secondario rispetto a tanti altri centri della provincia. Inoltre, se si vuole andare a definire un’identità storica e morfologica di Grosseto per legarla ai “fasti” del passato secondo me è inutile evocare il fantasma della città medievale, con i suoi riti e costumi, perché non esiste continuità morfologica e abitativa con quell’epoca così abusata e romanticamente citata a sproposito. Grosseto nel Cinquecento era un relitto deserto e fu interamente ricostruita come semplice fortezza e presidio militare. Il vero simbolo di Grosseto, le sue mura, sono della fine del Cinquecento. Nel Seicento venne poi abbellita e ripopolata. L’edificio seicentesco delle Clarisse, in cui lavoro e che ospiterà non a caso una straordinaria collezione di opere d’arte del Seicento, testimonia il fervore di rinascita della città in quel periodo.

Nel Seicento, quindi, Grosseto rinasce: la città da guerra diventò città di pace, si aprì e cominciò a guardare le paludi come luoghi da risanare e non come dissuasori militari. Poi, dal Settecento, le bonifiche crearono la pianura. Una terra nuova, quindi. Una terra fertile che nel Novecento si è riempita di vigneti e di agriturismi, molto diversa dal latifondo selvaggio dipinto da Fattori che tutti i nostalgici della Maremma “imbastardita” sembrano venerare e rimpiangere. Una terra nuova e verde come la Maremma della mezzadria, amata e rappresentata dal pittore mancianese Paride Pascucci, o come quella bonificata e metafisica di Memo Vagaggini e del fotografo Felice Andreis. Una terra nuova e accogliente che diventerà casa per molti abitanti nuovi e per artisti noti a livello internazionale come Daniel Spoerri a Seggiano, Mario Schifano all’Argentario, Gastone Novelli a Saturnia, gli artisti di Art Tapes 22 a Follonica e Niki de Saint Phalle con il suo Giardino dei Tarocchi ogni anno visitato da mezzo milione di persone, molte straniere e ignare della Maremma malarica ma edotte da giornali come The Guardian e Le Monde che celebrano il territorio senza citare paludi e medioevo. Pochi sanno che de Saint Phalle voleva progettare un tempio a tutte le divinità a Grosseto e l’archistar Santiago Calatrava fu contattato per realizzare un passaggio nel capoluogo. Occasioni che non si sono purtroppo concretizzate, ma che avrebbero spinto la città verso un nuovo orizzonte in grado di rispettare le promesse del passato, senza costringerci a riviverlo in modo fittizio e antistorico, per offrirlo come prodotto di consumo al turismo più superficiale. Calvino, sepolto qui vicino, diceva: “Una città prende forma dai deserti a cui si oppone”. Ecco, la forma di Grosseto delineata dai nuovi strumenti urbanistici, secondo me, si deve opporre al deserto del conformismo e della nostalgia per sperimentare e reinventare strade legate alla sue reale vocazione identitaria, nata nel Seicento: la modernità.

*Direttore di Clarisse Arte

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