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«Basta, cambio vita»: Annalisa saluta l’ospedale e va fare il medico di base nel borgo toscano


	La dottoressa e il borgo in cui è andata a prestare servizio 
La dottoressa e il borgo in cui è andata a prestare servizio 

Per anni punto di riferimento del presidio di Cecina, oggi assiste i pazienti di Montescudaio: «Una scelta che rifarei. Bellissimo il rapporto umano che si crea con le persone in queste piccole realtà»

02 maggio 2024
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CECINA. Dopo 22 anni in ospedale ha scelto di fare il medico di famiglia. E di farlo in un piccolo borgo, a Montescudaio. Annalisa Mannucci è l’eccezione, in un epoca in cui i medici di medicina generale non si trovano, solo nell’Asl Nord Ovest ne sono stati messi a bando 139, e quei pochi scappano da centri piccoli e periferici. «La mia è stata una scelta, e oggi, ad un anno e mezzo da questo nuovo inizio, posso dire che è stata quella giusta. Mi sento pienamente appagata e soddisfatta».

La scelta

Classe ‘71, specialista in geriatria e pneumologia, un curriculum ricco e ampio, referente della diagnostica vascolare per il presidio cecinese. Fino a quando, per varie ragioni, la dottoressa Mannucci ha sentito di non avere più la giusta motivazione per restare a lavorare in ospedale. «Avevo diverse alternative. Ho scelto il pubblico e non il privato perché credo nel pubblico, sono convinta che abbia ottime potenzialità e che si possa fare ancora tanto, credo soprattutto nella riqualificazione del territorio e che da qui si debba partire per risolvere le criticità, non poche, che ci sono nel sistema». Avrebbe potuto fare anche altro, sempre nel pubblico. «Ma sono legata a questa visione un po’ romantica del medico di famiglia come era un tempo, una figura di riferimento per tutta la comunità. Oggi mi sento questo e ne sono felice e orgogliosa». E lo ha detto fin dall’inizio: medico di base sì, ma in una piccola realtà. Così quando è capitata l’occasione “Montescudaio” non ci ha pensato su un attimo.

Gli altri

«A Casale c’è una collega che ha fatto la mia stessa scelta, la dottoressa Michela Giorgi Mariani, che era una psichiatra ospedaliera. Mentre a Guardistallo c’è un medico giovane, il dottor Tommaso Casciano, che ha scelto da subito la strada del medico di base, e ne è convintissimo. Collaboriamo molto con la medicina di gruppo». E la chiave è un po’ anche questa, nei piccoli centri. «Si evitano le realtà periferiche perché si teme di essere isolati. E invece, anche quando siamo distanti, siamo in contatto costante. Ci aiutiamo e confrontiamo tra di noi. Facciamo medicina d’iniziativa con il supporto di un’infermiera, facciamo ecografia, diagnostica. Abbiamo preso uno spirometro. Ci occupiamo dei pazienti fragili cronicizzati, e lo facciamo con estrema soddisfazione». La differenza la fa il contatto con le persone. «Si viene a creare un rapporto di fiducia. Un aneddoto, ad esempio. Un giorno ho avuto un problema perché mio padre era stato poco bene e ho fatto mettere un cartello che avrei ritardato l'ambulatorio. Il pomeriggio i pazienti sono venuti a informarsi su come stava. Fosse capitato in ospedale avrei trovato tutt’altra accoglienza».

Maledetta burocrazia

E il problema dell’estrema burocratizzazione che fa fuggire i giovani medici dagli ambulatori di medicina generale? «Sì, è vero che si potrebbe migliorare molto e qualcosa già si sta facendo. Come sulle ricette dei pazienti cronici, evitare che ogni volta per la terapia debbano tornare a prenderla in ambulatorio. Nel rapporto con gli ospedalieri che ora devono fare loro stessi le prescrizioni senza che i pazienti siano costretti a venire da noi. O sui certificati medici per i quali ci sono proposte per la televisita o l’autocertificazione. Ma se per burocrazia si intendono i piani terapeutici allora non sono d’accordo. Quelle non sono scartoffie, ma un modo semestrale per rivalutare il paziente e monitorarlo. Quindi sì, c’è da lavorare ma dipende anche da come si fa il medico. A me piace ‘mettere le mani addosso al paziente’, la mia parte di lavoro medico è sempre preponderante». Fare il medico di base in un piccolo borgo dunque può essere assolutamente soddisfacente, assicura, e invita i colleghi, soprattutto i più giovani, a non ‘fuggirne’. «Permette di mantenere le proprie professionalità, o di svilupparle. Non si è soli ma si può lavorare in gruppo e si diventa davvero un punto di riferimento per la comunità, anche al di là delle questioni meramente sanitarie. Ne vale la pena e sono assolutamente convinta della mia scelta». 

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