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Andrea Mattei, lo chef stellato di Forte e il coraggio dei piatti "semplici": «Sogno ancora il ragù da Rina...»

di Irene Arquint
Andrea Mattei, lo chef stellato di Forte e il coraggio dei piatti "semplici": «Sogno ancora il ragù da Rina...»<br type="_moz" />

Andrea Mattei, 44 anni, versiliese, dall’alberghiero di Massa al Bistrot a Forte. Poi arrivano le esperienze con Paracucchi, Ducasse e tutti gli altri grandi

31 dicembre 2023
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FORTE DEI MARMI. «Il cuoco è un po’ masochista: gode della giornata difficile e del servizio lungo. Sarà perché vive una continua sfida con se stesso». Anche se a guardarlo Andrea Mattei pare tutt’altro che un autolesionista. Molteplici le esperienze di pregio in cui ha portato in alto le cucine: pensiamo alla stella conquistata nel 2011 per la Magnolia del Byron hotel di Forte dei Marmi dove è rimasto per sette anni, o a quella del Meo Modo del Relais & Chateaux Borgo Santo Pietro di Chiusdino nel 2015.

Finché nel 2019 ha scelto nuovamente la sua Versilia per abbracciare il grande progetto gastronomico della famiglia Vaiani. A Forte, infatti, non solo guida la cucina stellata del Bistrot, la testa di serie del gruppo Vaiani, ma coordina anche il resto delle insegne di famiglia (Osteria del Mare, Fratellini’s, Pesce Baracca e Pesce Terrazza), il catering, fino alla scelta delle colture da approntare nei cinque ettari della fattoria di San Quirico di Moriano, sulle colline lucchesi.Oggi, infatti, il 44enne chef di Pietrasanta, è a capo di una settantina di cuochi (15 solo per il Bistrot), che salgono a ottanta nel periodo estivo quando apre il Pesce Terrazza. Perché se da bambino c’è chi sogna di diventare un astronauta, altri osservano con curiosità le donne ritagliare i tordelli versiliesi. «Il ricordo più nitido è la fetta di pane che la Rina mi tendeva ridondante ragù, da Romano a Pontaranci, la frazione che da Pietrasanta va verso Vallecchia, dove mio padre mi portava il sabato pomeriggio e io mi lasciavo rapire dalla cucina».

Perché è dalla meraviglia negli occhi di bambino che prende spunto la sua creatività?

«Mi sono sempre fatto guidare dalla parte romantica, da quel condimento che bolliva lento e genuino sul fuoco, dall’impasto chiuso con la forchetta nella sfoglia tirata a mano. Valori da custodire con rispetto, in un mondo oggi distratto dalla velocità del tutto e subito»

.Cresciuto sui banchi dell’alberghiero a Massa, nonostante i nomi illustri che lo hanno forgiato come Angelo Paracucchi al Carpaccio di Parigi, Alain Ducasse al Plaza Athenee di Parigi, Jean-Francois Piège, Annie Feolde, Valentino Marcattilii senza contare gli stage in età più matura (al Noma e al Geranium di Copenaghen, al Nerua di Bilbao, al Lasarte di Barcellona, all’Azurmendi di Bilbao, al Zeniya in Giappone), nello scegliere un maestro indica Rolando Paganini.

«Perché una tecnica la impari. La differenza la fa, però, la capacità di stare in cucina, gomito a gomito con i colleghi per i quali essere un punto di riferimento, umano e non solo tecnico. E questa propensione la devo al mio insegnante di cucina che mi portò da commis alla Magnolia del Byron dove tornai nel 2007 da primo chef».

Perché sarebbe limitativo pensare al cuoco come mero esecutore di un piatto.

«Ci sono, infatti, le risorse umane, attrezzature di grande valore economico, costi da gestire. E in tutto questo non bisogna mai perdere di vista il cliente. Diventi bravo quando capisci dove stai lavorando e accontenti chi ti sceglie per passare una piacevole serata. Altrimenti è un mero compiacimento personale».

Fra i maestri pone anche Riccardo Monco lo chef che dal 1992 non ha più lasciato Enoteca Pinchiorri di Firenze, il ristorante più in alto in classifica per la Michelin nei confini regionali.

«Dopo il San Domenico, l’Enoteca è stata la prima esperienza importante con una grande brigata, un ingranaggio perfetto fatto di continuità e di standard altissimi, in cui mi hanno trasmesso tecnica, rigore e precisione».

Aveva appena 21 anni quando arrivò al tristellato fiorentino, giungendo dal San Domenico di Imola, di cui varcò la soglia a 20 anni da commis, appena terminato il servizio militare.

«Simbolo della grande accoglienza italiana, vi si respirava la storia. Se devo citare un piatto senza tempo dico il loro uovo in raviolo. Pensato 60 anni fa, anticipava già la cucina molecolare, racchiudendo in sé tutto ciò che cerchiamo: estetica, gusto, tecnica. Perché un’idea giusta è senza tempo».

Fra le ricette in cui ama cimentarsi c’è il risotto, una preparazione insolita per un toscano che vive in riva al mare.

«Mi piace la complessità della cottura lunga, la cura da riporvi, l’equilibrio da conferirgli al contempo fra grassezza e acidità. Più che un piatto è un modo di pensare. In sé contiene l’identità di un luogo, perché non posso pensare di cucinare a Forte dei Marmi come a Milano».

Perché, che differenza fa lavorare a Forte?

«Serve il coraggio di realizzare piatti semplici. Come ad esempio lo spaghetto alle arselle, il più richiesto, ma ragionato senza alcun pregiudizio di forma o tecnica che prevarichi il concetto di identità. È questa una ricetta dai canoni precisi, non soggettivi, riconoscibili da chiunque. Eccola la sfida più difficile».

In cui ovviamente lo chef d’esperienza inserisce il tocco segreto (un po’ la crema all’aglione, molto la mano) aggiunto alla fortuna di vivere in un luogo privilegiato per qualità della materia prima. Aiutato in questo anche dall’azienda in cui Piero Vaiani, padre di Marco e David che oggi portano avanti i ristoranti di famiglia, ha sempre investito rifugiandosi fra i solchi dell’orto nei rari giorni in cui l’attività d’imprenditore si faceva pesante. Da cosa si parte nella creazione di un piatto?

«A volte si va di pancia, altre di testa, ma prima di tutto deve soddisfare il cliente. Perché c’è una grande differenza tra lavorare per il commensale e per gli addetti ai lavori. Le persone sono più attente, preparate. Chiedono però più concretezza, privilegiando la carta a discapito dei menù degustazione».

Rimpianti?

«Uno solo: il non avere avuto una gioventù libera. Ma poi, chissà se sarebbero passati gli stessi treni. Alla fine è il percorso fatto che mi ha portato fin dove sono, soddisfatto di fare parte di un gruppo tanto importante, per di più a casa, nel rispetto e la stima di chi mi circonda. Per cui no: non ho alcun rimpianto».

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