«Cari ragazzi, avete tutto il diritto di abbracciarvi (e di disobbedire)»: Ruffini racconta la "sua" scuola
Il regista - intervistato nell'ambito del progetto del Tirreno "Scuola 2030" se la prende con chi raffigura i giovani come un'orda: «Gli unni spesso siamo noi adulti». E ricorda il periodo in cui era studente:«Ringrazio la prof più severa: mi ha bocciato ma so che mi ha lasciato qualcosa»
LIVORNO. «La scuola l’ho vissuta come una grande scena teatrale. Ero il classico ragazzo al quale i prof cuciono addosso un’etichetta standard: “intelligente ma non si applica”. Mio padre Francesco si stufò di sentirselo ripetere e alla centesima volta mi disse: basta che non combini guai che facciano arrivare la polizia. Dicevano che il mio problema era la vivacità, io continuo a pensare che invece sia un valore». Come fossimo in uno dei suoi film Paolino Ruffini fa partire un flashback che ci fa volare indietro agli anni ’90 di Tangentopoli e del primo Berlusconi per ritrovarlo fra i banchi di scuola, a Livorno, al liceo classico Niccolini-Guerrazzi frequentato anche dai registi Paolo Virzì e Francesco Bruni.
Bullo, secchione, scapestrato: che tipo di studente era Paolino Ruffini?
«Ero in una scuola che teneva a far la faccia severa: a cosa serve il greco? Avrebbero dovuto farmi capire che mi avrebbe aiutato a capire la bellezza…».
Non mi dica che l’istrionico Ruffini, il mago dei doppiaggi in livornesaccio, si mette a far la morale su quant’era bello il greco e invece i ragazzi…
«Al contrario, capisco benissimo che a 15 anni un ragazzo possa girarsi dall’altra parte se l’apparato scolastico gli mette sotto il naso “L’infinito” di Leopardi».
“Puzza” troppo di scuola: è quasi un marchio d’infamia.
«Bisognerebbe far appassionare. E la passione sboccia se capisco che quei versi non sono una medicina amara che qualcuno ha deciso di farmi prendere. Raccontano proprio di me: mi aiutano a capirmi meglio, mi fanno vivere meglio. A votare meglio, a far meglio l’amore…».
Pescando dall’album degli amarcord di Paolino di 15 anni, in quale prof inciampiamo?
«Dentro il mio ultimo film c’è anche questo: la mia esperienza. Lì dentro c’è quel magma che è stata la mia vita al liceo. Faccio un nome: Lucilla Serchi, prof abbastanza mitica: cercava sempre di capire ed entrare in empatia».
Ma il “ragazzo vivace” avrà trovato anche qualche insegnante un po’ più spigoloso…
«Faccio un altro nome: la prof. Galeone. L’ho avuta il primo anno e mi ha bocciato, quando l’ho ritrovata in seguito al triennio mi sono detto: qui si mette male. Devo confessare una cosa: certo, era severa, forse perfino algida, ma a distanza di anni adesso non smetto di ringraziarla perché è forse una delle figure che mi hanno lasciato qualcosa. E non parlo di roba scolastica: mi riferisco al modo di stare in una comunità con una certa rettitudine civica, al senso della bellezza e della meraviglia che ho imparato dalla letteratura greca».
Fin qui abbiamo parlato dei prof. E i compagni di scuola?
«Le medie l’ho fatte dalle suore al Sacro Cuore: tipico da “bimbo intelligente che non si applica”. Quelli del liceo li ho un po’ persi di vista, sono andato via a lavorare in giro nei villaggi. Resta il fatto che, al di là del perimetro della classe, con un gruppetto di quei ragazzi ho percorso un pezzo di vita: ad esempio con Enrico Battocchi, Lorenzo Ceccarini e Riccardo Caiazzo ho creato il “Nido del cuculo”. I primi vagiti dei doppiaggi dei film sono nati sui banchi di scuola: era il clima del Classico di quegli anni».
Questi sono spazi fisici, mattoni. Ma il Covid ci ha costretto a scoprire anche spazi che fisici non sono…
«C’è una cosa alla quale non si può rinunciare: il contatto. L’altro non è un ologramma, è carne e ossa, desideri e voce. Serve a tutti noi, compresi i ragazzi, un contatto fisico. Bisogna scoprirsi sociali più che social, non è la stessa cosa. Figuriamoci se voglio chiudere la porta alle reti social, ma il mio invito è: ragazzi, riscopriamo la dimensione della fisicità. Penso alle prime volte: il primo bacio, i primi approcci sessuali, l’abbraccio di un amico. Tutti passaggi che ci hanno fatto scoprire chi è l’altro nella sua carne, nel suo esser lì davanti a te. Anche l’amore fa parte dell’educazione: se inibisci troppo il contatto diventa più facile l’aggressività. Non dovremmo aver paura di toccarci, ho paura di veder crescere generazioni che dopo averti stretto la mano ha voglia di disinfettarsele».
Tanto in “PerdutaMente” (sull’Alzheimer) che in “Ragazzaccio” (sul bullismo) l’amore sembra fare da filo rosso alla sua voglia di raccontare.
«Puoi anche decidere di farla finita e toglierti dal mondo ma non puoi farcela a dire: voglio smettere di amare. È quel che fa muovere il mondo, eppure in quest’ultimo periodo sembra che il motore di tutto sia l’odio: l’abitudine all’abbrutimento che arriva da quest’assedio di parole negative, che si tratti della guerra o del virus. Lo capisco, a 18 anni non hai paura del virus per te stesso ma sai che basta nulla ed ecco che lo porti in casa e tremi perché qualcuno della tua famiglia potrebbe morirne: si infila sotto pelle un senso di colpa dal quale questi ragazzi non devono sentirsi schiacciare. “Ne usciremo migliori”, dicevamo parlando di quando saremmo finalmente tornati ad abbracciarci: abbiamo perso una grande occasione».
Quel bullo del suo ultimo film è una prospettiva anomala. Il bullo è un Colpevole, e io voglio stare dalla parte della Vittima…
«Ho cercato di guardare il mondo con gli occhi di un bullo, sì. Ci sono delinquenti, ma non tutto è delinquenza: uno sgambetto è uno scherzo pesante, ma perché chi l’ha fatto dev’essere ucciso, cancellato?».
Magari sbattuto in galera buttando via la chiave: sembra che l’unica risposta sia quella securitaria.
«Non sto assolvendo chi fa atti di bullismo, figuriamoci. Ma mi domando se espellendo il bullo l’istituzione non faccia a sua volta “bullismo” sui bulli: l’esclusione è il problema, non la soluzione. Le stupidaggini più grosse le ho combinate proprio nei momenti in cui mi hanno sbattuto fuori».
Si rischia però che di fronte ad atteggiamenti vessatori basti una ramanzina.
«Non intendo questo, e tuttavia sono convinto che ai ragazzi, per quanto vivaci e impazienti, vada riconosciuto un certo “diritto alla disobbedienza”».
Lo disse don Milani…
«Credo che debbano essere un po’ antagonisti: ci indicano dov’è che il mondo adulto sbaglia. Lo fanno spesso in modo più “educato” delle maniere che abbiamo noi. Ho fatto vari dibattiti con ragazzi, ho trovato un modo civile di confrontarsi».
Ha più speranza in loro che negli adulti?
«Le gerarchie si sono ribaltate: di fronte a tutte le altre scoperte, erano gli adulti i depositari della conoscenza e ai ragazzi toccava rivolgersi a loro. Con il web no: i ragazzi ne sanno più di genitori e prof. Ha sovvertito qualsiasi piano educativo. Altro che unni selvaggi come li dipingiamo: gli unni spesso siamo noi adulti, ma ci siamo visti?». l