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Le sirene, il buio, il gelo e le naufraghe alle Scole «Noi salve per miracolo»

Melania Carnevali
Ester Percossi e Antonella Cipriani
Ester Percossi e Antonella Cipriani

Al Giglio la fiaccolata e la cerimonia del ricordo. La nave del disastro non c’è più ma molti si fanno portare nel punto della tragedia: «Affrontiamo le nostre paure»

14 gennaio 2022
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Susanna è arrivata dalla Germania. Ha una corona di luci in testa. In una mano una lanterna, nell’altra il braccio dell’amica che l’ha accompagnata sull’isola. «Da sola sarei crollata». Dietro, le sorelle Brolli, anche loro naufraghe della Concordia. «Aspettavamo questo momento da dieci anni». Sfilano sul molo del porto. Guardano un po’ a terra e un po’ verso il mare, cioè verso il nulla. Decine di fiaccole non bastano a illuminare la notte. In testa c’è il parroco. Le preghiere delle suore vengono coperte dalle campane e dal lento suono delle sirene delle barche ormeggiate.

Le sirene partono in un’ora precisa: le 21.45 e 7 secondi, l’ora in cui, dieci anni fa, quei 300 metri di metallo urtarono uno dei tre scogli delle Scole, prima di andare a picco e trascinarsi dietro le 4.200 che erano a bordo. E non è un semplice suono: sembra un lamento. Un grido di dolore che tutte le barche dell’isola del Giglio stanno rivolgendo a quelle acque sotto cui vennero recuperate, una ad una, e giorno dopo giorno, le vittime di quel naufragio. Furono trentadue.

Quasi tutte salite su quella nave per festeggiare qualcosa: la pensione, il matrimonio, il compleanno, la vita. Attratti dai prezzi bassi di una crociera sul Mediterraneo fuori stagione e con valige pronte a essere riempite di regali. Poi, c’era chi si trovava lì per lavoro. Come Russel Rebello, cameriere, trovato solo nel 2014, all’interno di una cabina, durante la fase di smontaggio nei cantieri di Genova.

Tutti morti annegati per una «manovra turistica», come la definì il comandante Francesco Schettino subito dopo il naufragio, il cosiddetto inchino, fatta decisamente male, ma che poteva non finire in tragedia se l’incidente non fosse stato minimizzato dal primo uomo a bordo (che oggi sta scontando nel carcere romano di Rebibbia la pena a 16 anni e un mese di reclusione) e se quindi le operazioni di salvataggio fossero iniziate subito e non dopo un’ora.

Ma la storia è un’altra. E oggi naufraghi, soccorritori e istituzioni sono tornati su quest’isola per ricordarla. Prima con una messa celebrata dal vescovo di Grosseto, padre Giovanni Roncari, nella stessa chiesa dei Santi Lorenzo e Mamiliano, dietro il porto, che quella notte ospitò i naufraghi. Poi con la deposizione di una corona di fiori in mare, nel luogo in cui la Concordia si adagiò su un lato, punta Gabbianara, anche oggi piena di gabbiani sotto il sole. E infine l’omaggio delle fiaccole e delle sirene.

Il porto, la mattina, è già pieno. Ci sono i soccorritori in divisa che, quella notte uscirono di casa in fretta e furia, senza sapere di preciso cosa li aspettasse. Ci sono i gigliesi, isolani dal cuore d’oro che dieci anni fa aprirono le porte ai naufraghi. C’è il sottosegretario alla presidenza del consiglio Franco Gabrielli, che ai tempi del disastro era a capo della Protezione civile, e anche il suo ex vice che adesso ha preso il suo posto, Fabrizio Curcio. In tarda mattinata arrivano anche Gregorio De Falco, oggi senatore, ma all’epoca responsabile delle operazioni di soccorso che gridò a Schettino quella celebre fase «salga a bordo c. ..», e il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani. «Non è stato facile prendere il traghetto, ma sono un’infermeria, so che le paure vanno affrontate», spiega Antonella Cipriani, di Sesto Fiorentino. Era su quella nave con la cognata e oggi è tornata sull’isola con lei. Capelli biondi, occhi azzurri già pieni di lacrime. Era la sua prima crociera. «Stavamo mangiando – racconta -: non eravamo nemmeno alla seconda portata quando c’è stato un blackout. Ho pensato che fosse normale, poi, però, c’è stata una sbandata. Sono caduti i piatti, la gente ha iniziato a correre. A quel punto era chiaro che dovevamo scappare, ma dove? Era una nave». E loro fanno quello che non avrebbero dovuto fare: vanno nella parte più alta della nave. «Quando siamo scese le scialuppe erano tutte occupate». Si salveranno grazie alle barche dei gigliesi.

Sul molo, c’è un’altra naufraga, Ester Percossi. È arrivata da Aprilia (Latina) e sulla nave era salita con madre e figlia. Tutte salve. «Pensavamo di non uscirne vive – racconta -. Siamo cadute sui vetri, cercavamo di rialzarci ma non ce la facevamo. Siamo riuscite a uscire e abbiamo preso l’ultima scialuppa di salvataggio, ma descrivere quello che abbiamo vissuto non è possibile».

Vanno in chiesa, poi è il momento della deposizione delle corone in mare. Anche le naufraghe si fanno coraggio. Anzi: vogliono salire sulla motovedetta della guardia costiera e tornano su quelle acque da cui, dieci anni fa, sono state salvate. E lì tutto il dolore riaffiora.

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