Happy Days, i 70 anni di Howard: da Ricky all’Olimpo dei registi
Il figlio ideale dell’America è diventato creatore di successi. “Cocoon”, l’Oscar per “A beautiful mind”, “Apollo 13” e il film sui libri di Dan Brown: un predestinato
Biondo, la divisa da una parte, come tutti i bravi ragazzi. Il figlio ideale dell’America anni Settanta, dove la buona borghesia bianca si teneva prudentemente lontana dai guai, dai moti di piazza, dalle inquietudini di megalopoli sempre più violente. Il maglioncino del college, il sorriso da Mulino Bianco, lo sport e il bicchiere di latte da Arnold’s con gli amici, il bacio casto alla ragazzina del cuore. La sana America dei buoni sentimenti, dove l’unica concessione al politicamente scorretto, si fa per dire, era il giubbotto di pelle e le marachelle di Fonzie, sciupafemmine e Lucignolo a stelle e strisce impersonato da Henry Winkler, sodale di una vita.
Ricky Cunningham, alla fine degli anni Settanta, scandiva i tardi pomeriggi della nostra adolescenza e, sotto sotto, tutti volevamo essere così: limpidi, puri, un poco ingenui ma felici. Ricky Cunningham, star di “Happy Days”, altri non era che Ronald William Howard da Duncan, Oklahoma. Nato il primo marzo 1954: già, settant’anni da pochi giorni.
Il cinema nel destino, nel Dna, nella testa e nel cuore: debutto a cinque anni nella celeberima serie “Ai Confini della realtà”, poi ruolo su ruolo verso la pubertà: le produzioni si litigavano quel pargolo biondo, solare, sorriso a 32 denti, il prototipo del bambino statunitense che cresceva sulla sua bicicletta nei curati vialetti della buona borghesia.
Nel 1973 la prima svolta si chiama “American Graffiti”, una sorta di anticipazione di Happy Days, l’età dell’oro dell’Howard attore, un successo planetario dal 1974 al 1981, quando decide che il suo domani sarà alle spalle della macchina da presa e lascia milioni e milioni di piangenti vedove, le ragazzine che vedono sparire il loro fidanzatino ideale. “Happy Days” si trascinerà stancamente fino al 1984, mentre Ron studia, sperimenta, immagina. Il 1982 porta il suo primo film di successo, “Night shift - Turno di notte” con Michael Keaton e Shelly Long: discreto successo di botteghino e critica, si vedono le prime tracce di un talento che cresce impetuosamente, facendosi largo in una palude infestata da squali come lo showbiz di Hollywood. In rapida successione ecco “Una sirena a Manhattan” (1984), “Cocoon” (1985), “Apollo 13” (1995), pellicola di grande pathos e suggestione soprattutto per il sapiente uso degli effetti speciali. Nel 2001 per il ragazzino biondo dal sorriso tutto americano arriva la consacrazione con l’Oscar per “A beautiful mind”, che narra la storia del matematico John Nash, impersonato da un superlativo Russell Crowe. Tra il 2006 e 2009 il sodalizio con Tom Hanks nei panni del professor Robert Langdon ne “Il Codice da Vinci” e “Angeli e demoni”, best seller di Dan Brown, dove Howard passa mesi sui set italiani, soprattutto Roma e Venezia. Quindi “Rush”, pellicola che racconta la rivalità tra Niki Lauda e James Hunt, draghi della Formula 1, e nel 2017 lo spin-off della saga di “Star Wars”.
Successo planetario, fama, libertà di scegliere i propri progetti senza pressioni né legami. Howard diventa anche imprenditore, come Hollywood insegna e qualche volta impone: è il co-proprietario con Brian Glazer della Imagine Entertainment, una compagnia di produzione cinematografica e televisiva, che ha prodotto notevoli successi in tv. Già, quella tv dalla quale non sa stare troppo lontano: per le elezioni presidenziali 2008 si è schierato, girando un cortometraggio, a favore del candidato democratico Barack Obama ed è tornato nel ruolo di Ricky Cunningham, recitando accanto ad Henry Winkler, che a sua volta ritorna ad essere Fonzie. Perché la fama, la realizzazione, una vita di successi non ci sarebbero stati senza quel Ricky Cunningham che ci faceva tornare a casa, di corsa, alle sette della sera.