Il Tirreno

Il premio

Corsa a sette per lo Strega (ma nessuno è un capolavoro)

di Lorenzo Marchese

	Emanuele Trevi, vincitore dell'ultimo Strega
Emanuele Trevi, vincitore dell'ultimo Strega

Desiati è il favorito, Bacà e Raimo possibili outsider

30 giugno 2022
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Mai come in questa edizione numero 76, la gara al Premio Strega si annuncia aperta: e se è incentivata dall’inconsueto allargamento della rosa dei finalisti (sette, invece dei soliti cinque a causa di due ex aequo nell’ultima votazione) l’apertura nasce anche da una ragione sotterranea. Come in un giallo di Agatha Christie, dove chiunque potrebbe essere l’assassino, anche qui ogni autore avrebbe ottime ragioni per ricevere il premio nella serata conclusiva del 7 luglio, a Villa Giulia a Roma (i panni della vittima potrebbe vestirli “Storia aperta” di Davide Orecchio, escluso dalla finale).

Toccherà a “Randagi” di Marco Amerighi, che torna, alla sua seconda prova, nei dintorni di una saga familiare disfunzionale pisana, con debiti dallo storytelling nordamericano (ma meno forti del precedente “Le nostre ore contate”, che riscriveva adolescenze toscane fra Stephen King e Netflix) e una prosa spedita, perfettamente televisiva?

O magari sarà la volta di Fabio Bacà, anche lui al secondo romanzo con “Nova”, per opposte ragioni: il fascino di premiare un editore come Adelphi, che non ha praticamente cittadinanza fra i premiati allo Strega, e uno stile così forbito (in stonatura con la trama, che racconta un lento apprendistato alla violenza) da suggerire una nuova categoria critica, il giuridichese letterario («potestà sul vero», «mozione di coito») con gli aggettivi prima dei sostantivi e il lessico pomposamente balzano («il senso di latente sopraffazione si reificò nel lembo della camicetta di sua moglie»).

Stesso discorso per Veronica Galletta di “Nina sull’argine”, tolti gli eccessi di stile: il peso specifico dell’editore in un premio del genere è purtroppo basso, ma la storia, così minimale, di una donna a capo di un cantiere edile una ventina d’anni fa (sul doppio argine, esplicitato quanto basta, di una psiche debordante e del fiume su cui s’innestano i lavori) potrebbe aprire a un’inattesa vincitrice.

Un eccellente sospettato, in tempo di guerre a Est, è “E poi saremo salvi” di Alessandra Carati: la storia di una famiglia scampata alle guerre balcaniche degli anni Novanta, coi suoi cascami di follie e radici spezzate, è un’esca per un pubblico affamato di storie messe a specchio dell’attualità. Ancor più attualizzante se raccontata in uno stile di uniforme melodramma, senza riguardi di lingua né di realismo, quasi tutti parlassero e pensassero allo stesso modo (cioè come l’autrice).

Per chi ne avesse abbastanza di presente, “Quel maledetto Vronskij” di Claudio Piersanti sarà vittorioso: gelosie coniugali, vite lasciate scorrere via senza impigliarsi alla grande storia, con la sola mediazione dei libri d’altri (“Anna Karenina” in questo caso) a sussurrare garbatamente strade di senso a individui crepuscolari.

E poi, la coppia Einaudi. Con “Niente di vero” di Veronica Raimo che, avendo vinto lo Strega Giovani, va verso il premio attraverso la strada dell’autobiografia recitata, fra costruzione (auto)imposta della femminilità e parodia del sé, con una certa perizia analitica («sentivo una strana intimità con quello che leggevo: non c’era niente di vero ed ero sopraffatta dalla tenerezza, erano i miei primi passi nell’impostura»). E Mario Desiati che, con “Spatriati”, tautologicamente, vincerà perché tutti, da mesi, lo danno per favorito, e questo conta più di tutto, per le indagini.

Ognuno ha un buon motivo per vincere: ma anche, tutti hanno moventi uguali. Mai come quest’anno, alla ricchezza della rosa finalista corrisponde una scarsa varietà: di trame, temi, modi di dire le cose. I sette finalisti si somigliano, a volte con una visibilità quasi buffa: l’assonanza fra Amerighi e Desiati sta nei personaggi della generazione Erasmus, nelle relazioni triangolari e disfunzionali su cui s’imperniano le vicende (con trent’anni di ritardo da Cunningham) e perfino nei titoli (“Randagi” e “Spatriati”). Del resto, c’è un aspetto ricorrente di miniatura dell’ultimo trentennio un po’ ovunque. Se è vero che il futuro non è più quello di una volta, tutte le storie, con l’eccezione parziale di Bacà, sono ripiegate sul nostro passato recente, intrise di un gusto vintage e precario che, se non fosse così ricorrente da risultare un sintomo, suonerebbe di maniera. Non solo: la fratellanza, vista come rappresentazione letterale di antitesi esistenziali incarnate, come nelle migliori saghe da Ferrante in giù, occupa buona parte dei romanzi di Amerighi, Raimo, Desiati e Carati; a guardia, vi sono i genitori grotteschi e apprensivi (Raimo e Amerighi). Se volessimo qualcosa di diverso, invece, i maschi in crisi per eccesso di mansuetudine e devozione coniugale (con le medesime scene di gelosie fraintese) li troveremo in Bacà e Piersanti.

Non si cada però nell’errore di dedurne che, se i finalisti sono tutti pressappoco simili nelle intenzioni e nei temi, allora sono identici in ogni dettaglio. Per confutare questa idea, basta ricordare qualcosa che chi ama leggere, in qualche modo nascosto, sa: ogni libro scritto male è brutto a modo suo.l

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