Raid, violenze e campi di prigionia la pagina nera degli italiani in Libia
La riconquista della Cirenaica nel libro di due storici: le immagini agghiaccianti degli occupati
Lorenzo Marchese
Nella galassia della letteratura di questi anni possiamo scorgere una strana presenza, apparentemente minoritaria: il fototesto. Forma della modernità, perché di fatto si sviluppa a fine Ottocento assieme alla diffusione della fotografia nelle scritture d’informazione su quotidiani e riviste, per poi espandersi nell’editoria letteraria, nelle parole di Giuseppe Carrara (autore per Mimesis dello studio sul tema “Storie a vista) il fototesto è un’opera che «mette in continua tensione due media». Vi si avvicendano inserti d’immagini e discorsi scritti, in un continuo scambio (e persino conflitto) dei significati. Al commento verbale, radicato nel presente di chi scrive, si giustappone l’impatto delle fotografie, che restituisce la presenza straniata di un passato non estinto. Non è un caso che alcuni dei fototesti (e dei libri tout court) più importanti degli ultimi vent’anni, da “Storia naturale della distruzione” (1999) di W. G. Sebald a “Istanbul” (2003) di Orhan Pamuk, siano imperniati proprio sul confronto visivo col passato: le foto ci rendono vivi anni ormai quasi dimenticati.
A questo panorama, “Il leone, il giudice e il capestro”, saggio a quattro mani degli storici Alessandro Volterra e Maurizio Zinni, appartiene a metà. Appartiene perché il testo ricostruisce, con l’ausilio di 104 fotografie prese in maggioranza dal fondo finora inedito di Giuseppe Bedendo, soldato e magistrato militare in Libia, la storia della “riconquista della Cirenaica” fra il 1926 e il 1932. L’operazione fu, come gli autori chiariscono, una vera e propria repressione, corredata di condanne a morte, raid aerei e di terra, campi di prigionia per adulti e bambini: il tutto a onta perpetua dello stereotipo “Italiani brava gente”, largamente impiegato fino a tempi recenti per un’autoassoluzione di massa verso un passato coloniale infame.
Che ci fosse poco da andare fieri, si sapeva già: nel dibattito storiografico (che gli autori, mi sembra, padroneggiano alla perfezione), in letteratura sin dal capolavoro di Ennio Flaiano “Tempo di uccidere” (1947) e anche nel senso comune, come ricorda chiunque abbia sentito parlare dell’agghiacciante storia (con ogni probabilità inventata) della dodicenne eritrea presa in moglie da Indro Montanelli. Ma un conto è sapere una cosa, un altro è vederla: il ricchissimo apparato fotografico del libro di Volterra e Zinni ci porta in un territorio sconosciuto. Guardare negli occhi le popolazioni occupate ci fa capire meglio di tante parole quanto la loro “sottomissione” fosse solo sulla carta; le adunate fasciste nel deserto, con tanto di ridicole coreografie propagandistiche, sono un sinistro contrappunto alle scene delle impiccagioni dei capi ribelli: a Omar al-Mukhtar, all’epoca già vecchio, è dedicato un bell’approfondimento.
Eppure, “Il leone, il giudice e il capestro” non è davvero un fototesto: e per certi versi è un peccato non lo sia. La rigorosa metodologia degli autori prepara un discorso ben ordinato ma specialistico, destinato a chi già s’interessi dell’argomento da una prospettiva di storico. L’andamento è rigorosamente anti-narrativo, con una trattazione per temi. Così, testo scritto e fotografie sono rigidamente separati e la mancanza di dialogo fra i due media si percepisce. Strade meno canoniche di valorizzazione di un archivio fotografico, forse, avrebbero portato fuori dal recinto degli storici. Ma la letteratura, senza bisogno di inventare nulla o mistificare, era a un passo: un rimpianto lieve resta.© RIPRODUZIONE RISERVATA