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La bandiera

Giancarlo Antognoni compie 70 anni: gli inizi nella Juventina, l’intuizione di Liedholm e l’amarezza più grande

di Luca Tronchetti

	Giancarlo Antognoni
Giancarlo Antognoni

Capitano per la vita: «Non ho mai tradito, Firenze mi ha amato». Il Giotto del pallone si racconta

31 marzo 2024
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FIRENZE. È stato, continua a essere e sarà per sempre l’emblema del capoluogo della Toscana, culla del Rinascimento e patrimonio dell’umanità. Alla stregua del giglio, del Marzocco e del Biancone anche lui è un simbolo di Firenze, un vessillo che non si ammaina e a cui si consegnano le chiavi della città. D’altronde le icone del calcio sono come i capolavori dei grandi artisti: non sono in vendita. Fa un certo effetto pensare che Giancarlo Antognoni - l’eterno 10, il Giotto del pallone di casa nostra, la luce che irradia gioco - domani compie 70 anni e constatare che, 35 anni dopo il suo addio alla maglia viola, un’intera città è ancora ai suoi piedi e quel poetico striscione -realizzato dai tifosi in occasione del suo rientro in campo nel novembre 1985, dopo l’ennesimo grave infortunio - con la frase “Niente ti ha distrutto, sei come il sole, risorgi e illumini tutto” è idealmente ancora lì, in mezzo alla Fiesole.

Per loro, Antognoni non ha mai smesso di giocare. Un segno tangibile che la riconoscenza, quella vera e sincera, esiste davvero a fronte di una fedeltà assoluta alla causa, in barba alle Coppe, agli scudetti e ai miliardi. «Meglio essere ricordati come uno che non hai tradito Firenze e la Fiorentina» il mantra di un centrocampista dotato di classe e eleganza smisurata, che in 15 anni di carriera in campo ha indossato la maglia viola 431 volte (record assoluto di presenze) realizzando 72 reti.

E pazienza se con quella casacca ha vinto solamente una Coppa Italia e una Coppa di Lega italo-inglese nel 1975, perché l’uomo ha scelto il cuore e ripudiato la ragione, il sentimento, rinnegando il portafoglio, l’ideale mettendo da parte le vittorie. Una bandiera più vicina a Riva del Cagliari, Bulgarelli del Bologna o Totti della Roma piuttosto che a Facchetti e Mazzola dell’Inter o Rivera e Maldini del Milan che, legandosi solamente al nerazzurro o al rossonero, hanno comunque vinto svariate coppe e diversi campionati. Con un’unica grande differenza: Giancarlo è stato l’unico campione a non vincere mai il tricolore. Eppure le tentazioni di lasciare la sua Fiorentina non sono mancate. Racconta Antognoni: «Nel 1978 mi voleva la Juventus di Agnelli e Boniperti che offrivano un monte di soldi e i cartellini di Causio e Benetti. Ma il presidente Melloni rifiutò i miliardi della Vecchia Signora per paura della reazione della piazza e io fui felice di rimanere. Quattro anni dopo mi voleva Liedholm, il mio primo allenatore in viola, alla Roma e il presidente Viola m’invitò anche a pranzo con mia moglie e mi fece vedere l’attico in piazza di Spagna dove sarei andato ad abitare, ma alla fine non me la sentii di lasciare una città che mi aveva adottato come un figlio e a cui avrei voluto regalare la gioia di uno scudetto».

I festeggiamenti

«Trascorrerò la giornata di domani insieme alla famiglia: mia moglie Rita e i miei figli Alessandro e Rubinia. Martedì invece i vecchi ultras hanno organizzato una cena al circolo della Rondinella mentre a metà settimana sarò a Palazzo Vecchio invitato a una cerimonia dal sindaco. È stata anche allestita una mostra di cimeli a Villa Arrivabene. Manifestazioni di grande amore che non avrei avuto in nessun’altra città abituata a vincere, dove per ogni decennio si sostituiscono e si tende a dimenticare il vecchio idolo. Per questo non ho alcun rimpianto: nella mia vita e nella mia carriera ho fatto la scelta giusta».

Le origini

Quel putto dal ciuffo ribelle nasce nel piccolo ospedale di Marsciano, a una trentina di chilometri da Perugia, ma sino a otto anni cresce nelle campagne dell’hinterland perugino da una famiglia contadina. «La mia famiglia è originaria di Papiano, ma io sino a otto anni ho vissuto a Casalina con babbo Gino, mamma Luciana e mio fratello maggiore Viscardo. Mio nonno era mezzadro e abitavamo in una grande casa colonica isolata dal paese dove risiedevano anche gli zii». Nel 1963 il capostipite degli Antognoni vende gli appezzamenti di terreno e acquista tre appartamenti nel centro di Perugia. «Mio padre aprì un bar sotto casa che diventò la sede di un Milan Club, visto che lui era un tifoso rossonero. All’età di 11 anni mi portò per la prima volta allo stadio Dall’Ara per assistere a Bologna-Milan con la formazione milanese che s’impose per 2-0 con una doppietta di Dino Sani. Lì nacque la passione per il pallone, prima giocavo solo a biliardino e ping-pong».

La River…enza

«Il mio idolo divenne Gianni Rivera: sognavo di giocare con lui. Quando il 9 dicembre 1973 a San Siro con la maglia della Fiorentina l’ho incontrato in campo sono rimasto per qualche istante a osservarlo incantato. Nei suoi confronti avevo una sorta di “River…enza”: c’è mancato poco che gli chiedessi l’autografo. Meno di un anno dopo - il 20 novembre 1974 a Rotterdam contro l’Olanda - convocato da Bernardini, il primo allenatore ad aver portato lo scudetto a Firenze, ho sostituito il mio mito in maglia azzurra, arrivando a collezionare in nove anni 73 presenze con 7 gol e partecipando a due mondiali e un europeo. Un passaggio di consegne sottolineato da un servizio televisivo del grande Beppe Viola e ricevendo i complimenti di un certo Johan Cruijff». Sono doni di natura l’eleganza, la visione di gioco, i lanci lunghi e calibrati, la palla sempre tra i piedi, la testa alta a rimirar le stelle e, come dice Ciccio Graziani suo compagno di camera nei ritiri viola e in Nazionale, «quel calcio forte e teso tanto che mentre la palla era in aria potevi leggere nitidamente la marca». Perché per Antognoni il calcio giocato arriva tardi: «Dopo gli inizi all’oratorio vicino Perugia mi nota un dirigente della Juventina San Marco in Prima divisione che mi fa tesserare per i bianconeri del presidente Falovo titolare di una maglieria dove lavoravo d’estate per tirar su qualche soldo».

Torino-Firenze solo andata

A 15 anni lo tessera il Torino: «Io e il mio amico Moreno Bottausci. Il tempo di un’amichevole e mi spediscono all’Asti Ma.co.bi del presidente-mediatore Bruno Cavallo». Due anni per lui formativi in D: «Ero timido, non ero mai uscito da casa e in quei campionati c’erano calciatori importanti che ti svezzano senta troppi complimenti. Con me in squadra c’era l’attaccante Vittorio Panucci, il papà dell’ex difensore di Milan e Roma, Christian, un bomber di razza anche grazie ai miei assist». Antognoni dovrebbe rientrare in granata, ma Cavallo a suon di milioni (435, una bella cifra per l’epoca) lo dirotta a Firenze su espressa richiesta di Nils Liedholm, uno che di numeri 10 se ne intende: «Mi fece fare la preparazione con la prima squadra a Massa Marittima e mi teneva d’occhio in allenamento. Complice l’assenza di De Sisti, mi fece debuttare in A a 18 anni con la casacca numero 8: vincemmo in trasferta a Verona per 2-1». In quella stagione c’erano tanti giovani di belle speranze come Caso, Guerini, Desolati e Roggi che sono diventati tra suoi i più grandi amici. Capisce che diventerà viola per sempre quando, nella stagione 1976-77 con Carlo Mazzone in panchina, i senatori della squadra Galdiolo ed Ennio Pellegrini lo nominano capitano: «La gente viene allo stadio per vedere Antognoni» dissero i due esperti difensori. Così come la prima volta anche la sua ultima partita, il 17 maggio 1987 al Comunale, terminò con una vittoria (1-0) contro l’Atalanta.

Più forte del destino

Nessuno ha regalato niente al Divino Giancarlo. I due infortuni, lo scudetto negato, il Mondiale spagnolo vinto da protagonista senza giocare la finale sono inciampi del destino che ha saputo saltare in dribbling attaccando la porta con le sue conclusioni potenti e precise. Il 1982 è stato il suo anno domini. Magico e al contempo tragico. Vince il mondiale di Spagna, con Bearzot che gli cuce addosso il ruolo di regista della Nazionale, ma deve rinunciare all’occasione della vita di giocare la finale con la Germania Ovest: «In semifinale, contro la Polonia, nel calciare dal limite invece di trovare la palla incocciai nella gamba di Matysik e mi procurai un taglio sul collo del piede destro. Un infortunio che mi costrinse a saltare la finalissima. Pensate la iella: ero il rigorista della squadra e quel penalty sbagliato da Cabrini l’avrei calciato io e magari realizzandolo sarei entrato nella storia dalla porta principale. Invece la finalissima la vidi dalla tribuna stampa. Un rimpianto che mi porto dietro da sempre. Ma almeno quella medaglia d’oro mi è rimasta per sempre». Già, perché per arrivare sino al Santiago Bernabeu, Antognoni recuperò da un drammatico infortunio che poteva costargli la vita: il terribile scontro con il portiere del Genoa, Silvano Martina. Sul punteggio di 2-1 in favore dei viola, al minuto 55 Antognoni, lanciato in contropiede, si proietta in area di rigore per raggiungere la palla, ma l’estremo rossoblù con un intervento scomposto solleva la gamba e con il ginocchio destro colpisce la testa del capitano che crolla esanime sul terreno di gioco. Il suo cuore si ferma per 25 lunghi secondi: «Mi salvarono il nostro massaggiatore Raveggi e Gatto, il medico del Genoa, con un massaggio cardiaco. Ricordo solo di essermi svegliato all’ospedale di Careggi con una doppia frattura alla regione parietale sinistra. Venni operato per rimuovere l’ematoma e fortunatamente quattro mesi dopo ero già in campo e diedi il mio contributo alla Nazionale. Con Martina siamo diventati amici. Lui passò i suoi guai e finì sotto processo, ma non c’era intenzionalità. Fu un incidente di gioco. Purtroppo due anni dopo contro la Sampdoria un intervento del blucerchiato Luca Pellegrini mi provocò la frattura scomposta di tibia e perone costringendomi a un anno di inattività. Ma anche in quella circostanza non ci fu malafede». L’amarezza più grande resta comunque lo scudetto perduto nel 1982: «Nell’ultima giornata alla Juventus a Catanzaro fu assegnato un rigore mentre a Cagliari a noi della Fiorentina negarono un gol buono. Fu una grande ingiustizia: meritavamo di disputare lo spareggio. Negli anni mi sono fatto una convinzione: il Mondiale era alle porte e in Nazionale c’erano otto calciatori della Juventus e cinque della Fiorentina. Un’altra partita avrebbe ritardato la fase di preparazione».

Gol e avversari

«La rete contro il Brasile al Sarriá in Spagna sarebbe stata memorabile, ma è stata ingiustamente annullata. Quindi metto il colpo di testa in tuffo nel 3-3 a Firenze contro la Juventus sia per l’importanza sia per l’esecuzione, perché un gol così non l’ho più rifatto». Tanti gli avversari che gli hanno reso dura la vita in campo: «Ne cito due su tutti: Furino e Oriali. Lele è stato mio compagno in azzurro e nell’ultima stagione a Firenze, era uno che giocava a uomo e non ti mollava mai». Gli amici che ricorda con maggior affetto sono quelli della sua giovinezza in viola: «Roggi, che mi scorazzava con la sua 500 quando io non avevo ancora la patente, Caso e Guerini, che senza l’incidente automobilistico sarebbe diventato il più forte mediano italiano. Poi dico Graziani, il povero Scirea e Tardelli con cui ho condiviso, io nel Losanna e lui nel San Gallo, l’esperienza in Svizzera a fine carriera».

Violazzurro

Dal 1990 al 2001 ha rappresentato la Fiorentina in vari ruoli: osservatore, team manager, direttore generale portando a casa campioni come Rui Costa acquistato dal Benfica per sette milioni di dollari: «Lasciai dopo un litigio con Cecchi Gori seguìto all’addio di Terim a cui ero molto legato. Mi avvicinò Galliani che voleva portarmi al Milan, ma alla fine non ne se fece nulla». Per 12 anni, dal 2005 al 2017, Antognoni diventa coordinatore degli osservatori delle nazionali giovanili e Capo delegazione dell’Italia Under 21. Poi il rientro all’ovile come club manager sino al turbolento addio in seguito a discussioni con il presidente Rocco Commisso. «Provai grande amarezza, ma poi la vita va avanti. Per il futuro mi auguro di rientrare nel mondo del calcio, magari di nuovo con la Fiorentina con l’augurio, dopo il terribile lutto per la scomparsa di Joe Barone, di poter conquistare la Conference League. Sarebbe il più bel regalo di compleanno».

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