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Fernando De Napoli, il Rambo del calcio italiano si racconta: Maradona, i Napoli e il terremoto in Irpinia

di Luca Tronchetti
Fernando De Napoli esulta insieme a Diego Armando Maradona: tra i due nacque subito una grande amicizia
Fernando De Napoli esulta insieme a Diego Armando Maradona: tra i due nacque subito una grande amicizia

Il Napoli, le corse, l’amicizia con Maradona e il trauma del terremoto: «Ho visto i corpi degli amici sotto le macerie»

18 marzo 2024
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Una vita da mediano quella di Fernando De Napoli “guardiaspalle” del Napoli di Maradona. In carriera ha vinto quattro campionati, una Coppa Uefa, una Coppa Italia, tre Supercoppe italiane ed è il giocatore campano con più presenze in azzurro (54) partecipando a due mondiali e a un europeo. De Napoli, il “Rambo” del calcio italiano per quel gioco maschio, i capelli sempre bagnati dall’erba e dal fango del Partenio e la somiglianza all’eroe tenace interpretato da Sylvester Stallone, ha festeggiato le 60 primavere con una kermesse di tre giorni là dove tutto ha avuto inizio: Chiusano San Domenico, paesino dell’Alta Irpinia: «Prima al fan club che porta il mio nome, poi al ristorante con gli amici e infine domenica in famiglia con mia figlia Carlotta, mia nipote Matilde e soprattutto mia mamma Assunta, 95 anni, che mi coccola come si fa per uno scugnizzo».

Caffè e pallone

A Nando nessuno ha mai regalato nulla. Niente oratorio e scuola calcio. La strada è l’unica certezza e con un vecchio pallone Super Santos gioca in piazza con i suoi amici schivando le auto e rompendo vetri alle finestre delle case: «Una volta ho mandato in frantumi quelli della caserma dei carabinieri che mi hanno inseguito senza però riuscirmi a prendere». Il babbo gestisce l’unico bar e il suo destino appare segnato: «Il guaio è che non sapevo preparare nemmeno il caffè. Lui provò a mettermi dietro al bancone, ma fu un disastro», racconta. A salvarlo fu un provino di Gino Corrado, factotum del Mirgia di Mercogliano, il principale settore giovanile dell’Irpinia. «Due anni dopo, avevo 15 anni, il commendator Antonio Sibilia, presidente dell’Avellino, si presenta da mio padre per comunicargli che voleva portarmi nel settore giovanile della sua squadra che aveva appena vinto il campionato di Serie B. Un’emozione grande per un uomo ansioso e sensibile che non è mai venuto a vedermi giocare».

Dal terremoto alla A

La sua più grande soddisfazione è quella di essere l’unico calciatore ad aver vestito la maglia della nazionale ai mondiali del 1986 militando nell’Avellino. «Ma prima di arrivare a quella partita contro la Bulgaria – dice De Napoli – da ragazzo delle giovanili ho vissuto il dramma del terremoto in Irpinia. Quel giorno ero in un bar di Avellino: a un certo punto c’è stato un boato e siamo fuggiti fuori dal locale mentre vicino a noi cornicioni cadevano e muri crollavano. Ho realizzato nei giorni immediatamente successivi con le scosse di assestamento e soprattutto partecipando come volontario ai soccorsi a San Mango sul Calore, un comune di 1.700 anime raso al suo dal sisma. Ho visto i cadaveri gonfi e i corpi mutilati di tanta gente che conoscevo. Mi sono legato talmente alla mia terra che a 18 anni stavo per rifiutare il trasferimento in prestito al Rimini in C1 che mi fu comunicato mentre ero in campeggio con gli amici a Palinuro. Se loro non mi avessero convinto la mia carriera non sarebbe mai iniziata. Lì ho conosciuto un certo Arrigo Sacchi che mi ha inculcato la cultura del lavoro e del sacrificio». Il debutto in Serie A l’11 dicembre 1983 all’Olimpico contro la Roma: «A darmi fiducia – prosegue De Napoli – fu Ottavio Bianchi, che ho avuto per 4 stagioni. Mi mandò in campo con la casacca numero 11. Perdemmo 3-2 contro i giallorossi, ma da quel giorno diventai titolare inamovibile. Mi colpiva la spiazzante ironia che emergeva. Il mio più grande cruccio è quello di aver letto il comunicato di ammutinamento della squadra nei suoi confronti nell’anno in cui il Napoli, che aveva 5 punti di vantaggio dal Milan, perse lo scudetto dopo il ko al San Paolo con i rossoneri. Non lo rifarei».

Brady e Maradona

Tra i tanti avversari c’era un centrocampista che non riusciva mai a fermare: «Liam Brady. Sembrava lento, ma la palla te la nascondeva», ricorda il buttafuori di Maradona. Con Il Pibe de Oro un rapporto speciale: «Il più forte giocatore della storia del calcio. Quando dall’Avellino venni ceduto al Napoli per la cifra record di 5,8 miliardi ricordo ancora la prima cosa che mi disse nello spogliatoio: “Appena vedi che mi stanno marcando in due tu passami la pelota perché io debbo scaldarmi”». La generosità dell’uomo era persino superiore a quella del campione. «Mi fece un regalo che non dimenticherò mai: mi prestò per un giorno la sua Ferrari F40 con cui tornai a casa facendola poi guidare agli amici del Paese. Fu un momento indimenticabile».

Il gol che non dimentica

Due le reti che ricorda con piacere: «La prima con la maglia del Napoli con una conclusione da fuori area contro l’Udinese nella stagione 1986-87 e il super gol contro la Juventus, un bolide con l’esterno del piede da 30 metri». La delusione più cocente l’ha vissuta indossando la maglia azzurra: «Il mondiale del Novanta, quello delle notti magiche. La nostra era la squadra più forte e la semifinale persa ai rigori contro l’Argentina mi brucia ancora oggi».

Milan e Van Basten

Da Ferlaino, presidente vecchio stampo che viveva poco lo spogliatoio, a Berlusconi, patron presenzialista portabandiera del culto dell’immagine. De Napoli è stato il calciatore che nelle due stagioni in rossonero (1992-93 e 1993-94) ha vinto di più giocando di meno. Nove partite per conquistare cinque trofei: due scudetti, due Supercoppa e una Champions: «Mi presero per rimpiazzare Rijkaard giocando in coppia con Albertini. Ma le cartilagini del ginocchio erano talmente consumate per le botte prese e ricevute in carriera che quelle due stagioni le passai in prevalenza in palestra assieme a Van Basten».

Ancelotti, i monti e i funghi

Prima di attaccare gli scarpini al chiodo, Rambo ha avuto modo di essere diretto da due giovani tecnici poi diventati grandi allenatori: Claudio Ranieri e Carlo Ancelotti: «Avevano stile e sapevano fare gruppo. Carletto poi l’avevo conosciuto al Milan ed era già un allenatore in campo per come sapeva gestire la squadra. Ci siamo ritrovati insieme nella Reggiana e, dopo un inizio difficile con il rischio dell’esonero, è stato bravissimo a cementare il gruppo». A Reggio Emilia l’ex centrocampista è rimasto a vivere per oltre un quarto di secolo: «Chiusa la carriera a 33 anni mi sono ritagliato il ruolo di team manager e dirigente. Un’esperienza fantastica, poi il crac societario del 2005 mi ha segnato e fatto allontanare dal calcio». Oggi si gode la sua più grande passione: «Le passeggiate sui monti in cerca di funghi: quando li trovi è come segnare un gol».


 

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