Jannik, l’infinito presente
Stremato, felice, steso sulla linea di fondo guardando verso il firmamento del tennis. Sinner nella storia: rimonta Medvedev da 0-2, è il primo Slam maschile dopo 47 anni
Cosa guardi, Jannik? Steso sulla linea di fondo, le braccia larghe, la mano che non molla quella racchetta benedetta dagli Dei, le gambe piegate da quattro ore di follia tennistica ma non ancora spezzate (beati vent’anni...), il cuore in tumulto, il pensiero che torna a San Candido, alle montagne che accarezzano l’Austria (ma non vi illudete cari vicini, è Italia quella), alle gare di sci, alla cameretta delle speranze, a Bordighera dove Riccardo Piatti iniziò a sgrezzare il diamante, al pane duro dei Challenger, alle prime vittorie, alla Davis. Ecco cosa guardi, Jannik: le stelle, l’infinito, il firmamento del tennis. Lascia che i tuoi occhi si perdano lassù, su quelle stelle che non sono più così lontane, ogni luce un vincitore di Slam, adesso ci sei anche tu, 47 anni e sette mesi dopo quel torrido pomeriggio parigino che regalò l’assoluto ad Adriano Panatta, così diverso da te, l’indolente e fascinoso romano che distillava veroniche sotto rete e sinfoniche palle corte contro l’altoatesino di ghiaccio, con i microchip sotto la pelle, che ancora non sa ridere a 32 denti ma che con l’esempio, la dedizione, il lavoro sta scrivendo un altro capitolo della Divina Commedia tennistica. Guarda lassù, Jannik, perché soltanto il cielo è il tuo limite: nella mattinata italiana, dalla colazione al pranzo, hai tenuto avvinto come l’edera un popolo che ha disperato bisogno di eroi: pochi giorni fa ne ha sepolto uno sotto la fiera terra sarda, quel Gigi Riva che aveva la tua stessa etica del lavoro, la serietà, la filosofia della rinuncia. Magari non avrai pensato anche a lui, disteso sul cemento di Melbourne, ma lui sarà ugualmente felice del trionfo di un ragazzo così, taciturno, lontano dai social caciaroni, la volontà fatta giocatore.
E guardi in alto, Jannik. Tra pochi secondi dovrai alzarti, correre verso la rete e abbracciare quell’orso russo così forte nella sua asimmetricità tennistica, magari sotto sotto te la riderai pensando che proprio quel Medvedev, qualche anno fa, quando tu eri ancora una crisalide non ancora divenuta meravigliosa farfalla, ti aveva sbadigliato in faccia dopo averti inflitto un 6-0: Jannik sei buono, bravo, il figlio ideale ma se dimenticassi non saresti umano.
Infatti tu non dimentichi, e cucini a fuoco lento quel moscovita terribile nel suo gioco rugginoso, quasi meccanico, quasi senza un cuore, pitagorico e tagliente. Anche sul doppio svantaggio, doppio 3-6, quando i pianeti sembrano disallinearsi, nel cuore di Jannik non c’è paura, non c’è il timore di una sconfitta che sarebbe letta come un ridimensionamento dagli odiatori di professione, non c’è l’italianissima ricerca delle scuse, degli alibi: no, il ragazzo nato non per caso a un soffio dall’Austria pensa soltanto a limare gli errori, ad alzare l’asticella con se stesso, al modo di spargere dispettosi granelli di sabbia tra le zampe dell’Orso. Sembra un miracolo, il lento e progressivo spostamento del piano inclinato del match, ma non lo è: l’epilogo del quinto set è ineluttabile, inevitabile, fatale. L’Orso vacilla sotto il peso delle 25 ore trascorse in campo agli Open, un successo al quinto set dopo l’altro, mentre Guglielmo Tell dai capelli rossi scocca un dardo dopo l’altro, e non sbaglia una mela. Finisce così, con quel suono, Slam, che assomiglia a una porta in faccia al destino. Davis, Australian Open: Panatta si rilassi finalmente, non ha più il peso del mondo sulle spalle. Anche a questo pensi, Jannik, con gli occhi al cielo d’Australia: e le altre stelle stanno a guardare.