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Prato, sindacato e operai vanno a caccia delle ditte cinesi “apri e chiudi”

di Paolo Nencioni

	Gli operai pachistani nella nuova sede del Sudd Cobas in via San Jacopo
Gli operai pachistani nella nuova sede del Sudd Cobas in via San Jacopo

Domenica la mobilitazione del Sudd Cobas partirà dal Macrolotto 2

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PRATO. Il distretto parallelo, in gran parte cinese, che sfrutta gli operai, soprattutto pachistani, è pronto a chiudere e riaprire, spostando la produzione in caso di controlli, per rendere inutili le sanzioni. Il giochino funziona se poi nessuno va a controllare dove è stata spostata la produzione, sotto altro nome. Ci ha pensato il sindacato Sudd Cobas. O meglio, lo farà domenica pomeriggio, 1° dicembre, dopo un lavoro di “intelligence”, andando a bussare agli anonimi capannoni dove è stata trasferita la produzione di tre piccole aziende, la Arte93 nel Macrolotto 2, la confezione Moda Oro del Macrolotto 1 e la tessitura Sofia di Montemurlo.

È una specie di riedizione dello Strike Day, che a ottobre si è concentrato su cinque piccolissime aziende cinesi scatenando il putiferio dopo il pestaggio al picchetto davanti alla confezione Lin Weilong, ma il metodo assomiglia a quello messo in campo in altre vertenze dove grandi aziende hanno spostato la produzione per perpetuare lo sfruttamento e si è poi scoperto dove si erano insediate.

«Col sistema “apri e chiudi” le aziende eludono i controlli – ha spiegato Sarah Caudiero del Sudd Cobas – Nelle statistiche i numeri crescono, ma restano sulla carta e in mano resta un pugno di mosche. Prendere di mira i committenti? Sì, a patto che anche loro non facciano “apri e chiudi”. Però chiudere e riaprire una ditta non è così facile. Servono professionisti che aiutano chi lo fa. Si servono di prestanome: con 5.000 euro puoi usare i documenti d’identità di persone certe volte ignare. E poi c’è il ruolo dei proprietari dei capannoni. Ci sono agenzie si occupano di affitti e subaffitti dei capannoni». Insomma, il solito Far West nel quale ora il Sudd Cobas si candida a fare la parte dello sceriffo.

Oggi nella nuova sede del sindacato, in via San Jacopo, c’erano anche i lavoratori che questo “apri e chiudi” lo hanno vissuto sulla propria pelle. Hussein Atif lavorava alla tessitura Sofia di Montemurlo e racconta di quando è andato a chiedere di essere regolarizzato. «Mi hanno risposto: “siamo cinesi, non facciamo contratti”». «Se volevo prendermi un giorno di vacanza mi trattenevano 50 euro – aggiunge – Poi siamo arrivati un lunedì e non c'era più niente, né macchinari né persone». L’Ispettorato del lavoro aveva fatto un controllo di giorno ed era quasi tutto in regola, gli operai hanno fatto presente che lavoravano di notte, hanno dovuto aspettare sei mesi per veder tornare gli ispettori. Il risultato è che l’azienda ha chiuso e, sospetta il sindacato, ha riaperto da un’altra parte, senza quegli scocciatori che si ostinavano a chiedere il rispetto del contratto di lavoro. Tutti infatti raccontano, alcuni in inglese, che in questo mondo si continua a lavorare 12 ore al giorno, sette giorni alla settimana. Domenica un corteo partirà dalla Welltex di via Galvani per andare a scovare i nuovi luoghi della produzione e il Sudd Cobas sta preparando anche un esposto alla Procura. 

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