Il Tirreno

Pistoia

Morti sul lavoro

Morì a 46 anni nel compattatore di rifiuti, il pm chiede condanna di titolari e progettista

di Massimo Donati
Un cassone compattatore al tempo in dotazione alla Dife
Un cassone compattatore al tempo in dotazione alla Dife

Il pm chiede la condanna dei tre imputati per la tragedia alla Dife spa

04 febbraio 2023
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SERRAVALLE. Una morte terribile, forse dovuta anche alla troppa confidenza con una mansione a cui era addetto da anni. Ma le cui responsabilità vanno ricercate tutte in chi non lo aveva messo in condizioni di operare in completa sicurezza e nel costruttore di quel macchinario non conforme alla normativa – e per questo pericoloso – che, la mattina del 18 febbraio 2017, per Vincenzo Scarlata, 46 anni, si trasformò in una trappola fatale.

È con l’accusa di omicidio colposo che, ieri mattina, per quella tragedia sul lavoro, il pubblico ministero Luigi Boccia ha chiesto la condanna a un anno e quattro mesi di reclusione per tutti e tre gli imputati finiti davanti al giudice del tribunale monocratico di Pistoia: il delegato per la sicurezza e il presidente della Dife spa di Serravalle, che si occupa del recupero e del trattamento di rifiuti speciali (Franco Romani, di Montecatini, 63 anni, e Orazio Latina, 52, residente a Pescia); e Arnaldo Bonaveno, 70 anni, di Motta di Livenza, in provincia di Treviso, il progettista nonché titolare della Cm snc, la ditta costruttrice del compattatore di rifiuti tra i cui meccanismi perse la vita la vittima.

Secondo l’accusa, il cassone compattatore affidato a Vincenzo Scarlata, proprio in base alla terribile dinamica dell’infortunio e alle testimonianze ascoltate durante il processo , si è dimostrato non conforme alle disposizioni legislative e ai regolamentari di recepimento delle direttive comunitarie. L’operaio, che abitava a Quarrata, stava manovrando il grande container, caricato su uno dei tanti camion dell’azienda. Un cassone che si inclina all’indietro per far scivolare fuori il carico mentre il portellone posteriore si apre. E che poi si riabbassa per tornare in posizione orizzontale. Sempre comandato dall’operatore di turno, attraverso delle leve fissate sul retro del container stesso. Era stato a quel punto che Vincenzo Scarlata si era affacciato all’interno del cassone, per vedere se fossero rimasti dei residui. E probabilmente aveva azionato la leva che chiude il portellone invece di quella che comanda la pala interna per fare uscire i rifiuti rimasti. Oppure aveva calcolato male i tempi. Fatto sta che il container si era richiuso proprio sulla sua testa. Uccidendolo sul colpo.

Sotto accusa, perciò, è proprio il posizionamento di quei comandi, collocati troppo vicini (50 centimetri) alla parte posteriore del container, visto che la vittima aveva potuto azionarli semplicemente allungando un braccio anche mentre era con la testa all’interno del vano di carico.

Tra l’altro, ha sottolineato ieri il pm, quella di controllare che ci fossero ancora dei residui nel compattatore era una procedura stabilita dall’azienda stessa. Per cui non era stata un’imprudenza della vittima ma una procedura aziendale non conforme alla massima sicurezza e, soprattutto, la collocazione progettualmente errata delle leve di comando a rendere possibile la tragedia. Assieme al mancato adeguamento del macchinario da parte della Dife a ben vent’anni dalla sua costruzione. Adeguamento che, anche grazie allo sviluppo avuto dalla tecnologia nel frattempo, sarebbe potuto avvenire, ad esempio, tramite la collocazione di una griglia scorrevole che impedisse di raggiungere quei comandi da posizioni pericolose. Le soluzioni ci sarebbero state, secondo il pm, anche se, probabilmente, costose.



 

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