Il Tirreno

Il racconto

Da Gaza alla Toscana per salvare le figlie: «La nostra casa è bruciata e i miei figli hanno visto troppi morti»

di Melania Carnevali

	Da sinistra: Malak Ziara, Abdalrahim Almadhoun e Ahmmad Abo Sitta 
Da sinistra: Malak Ziara, Abdalrahim Almadhoun e Ahmmad Abo Sitta 

Parlano i genitori delle due bambine ricoverate all’ospedale del cuore: «Là riuscivamo a dormire, adesso chiudiamo gli occhi e riviviamo tutto»

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MASSA. Guarda, dice. E alza il cellulare. Prima mostra una foto di casa sua prima del 7 ottobre. È una stanza con lampade al neon colorate, un narghilé in primo piano, sullo sfondo un divano Majlis, quello con le sedute a terra, a forma di U, tipico dei paesi arabi. Poi mostra la stessa stanza dopo l’invasione israeliana: non ci sono né colori né tessuti, ma solo un cumulo di sassi grigi. «Quando hanno iniziato a bombardare, non pensavamo che sarebbe durata tanto. Abbiamo preso solo un paio di cambi, prima di scappare verso sud. Poi la nostra casa è stata bombardata e distrutta. E adesso non abbiamo più niente: è tutto bruciato», racconta Abdalrahim Almadhoun, 28 anni, infermiere palestinese della Striscia di Gaza, arrivato in Italia a metà agosto con una missione MedEvac (Medical evacuation).

Dal 2007 (anno della presa di potere di Hamas), la Striscia è sottoposta al blocco terrestre, marittimo e aereo imposto da Israele. Questo significa che già prima del 7 ottobre gli spostamenti erano estremamente limitati e sottoposti a permessi speciali che raramente venivano dati. Dopo è stato tutto sigillato. I pochi che riescono a uscire è per ricevere cure mediche. Una dei tre figli di Abdalrahim, la più piccola, di cinque mesi, è nata con una cardiopatia che nella Gaza senza medici e senza ospedali non poteva essere curata. Grazie alla collaborazione con la Fondazione Monasterio, è stata portata all’Ospedale del cuore dove è stata subito operata e ricoverata in terapia intensiva. «Oggi l’abbiamo presa in braccio per la prima volta», racconta il papà.

Accanto a lui, in questa sala dell’ospedale apuano, ci sono la moglie, Malak Ziara, 27 anni, anche lei infermiera, e Ahmmad Abo Sitta, 32 anni, il viso scavato, il sorriso sparito da chissà quanto tempo, papà di un’altra bimba ricoverata: ha quattro anni ed è arrivata all’ospedale con segni di denutrizione.

La coppia di coniugi è un fiume in piena, Ahmmad no. I primi due hanno voglia di raccontare, raccontare tutto, l’altro ci prova. Abdalrahim e Malak vivevano nel nord della Striscia, da dove è iniziata l’offensiva del governo israeliano entrato con i carri armati e la fanteria varcando la frontiera vicino a Beit Hanoun e Beit Lahia. Dopo il 7 ottobre hanno cambiato città sette volte. Ogni volta trovavano rifugio in campi sempre più pieni. «È davvero strano ritrovarsi da avere una bella vita, in un posto magnifico, con dei grandi limiti di movimento, sì, ma felici, a essere profughi, a non avere una casa, a cercare da mangiare, a sperare che tuo marito non sia tra i morti schiacciati in coda per recuperare gli aiuti alimentari», dice Malak. Aiuti che non bastano mai. «In genere nei pacchi ci sono pasta, zucchero, sale, olio, verdure in scatola – continua la 27enne -, ma spesso dentro non c’è nemmeno tutto. Alla fine ci troviamo a mangiare per settimane solo lenticchie».

Un chilo di farina per una settimana con la figlia malata

Ahmmad Abo Sitta, invece, abitava nel centro della Striscia, zona meno sottoposta ai bombardamenti ma dove il cibo scarseggiava sempre. «Non ci sono più negozi a Gaza. Il cibo si trova raramente per strada e a prezzi inaccessibili», racconta. Un chilo di farina adesso arriva a costare anche 50 dollari. Un prezzo che lui, che prima dell’invasione lavorava in un’attività di elettrodomestici, non poteva permettersi. «Se riuscivamo a comprare un chilo di farina ce lo facevamo durare una settimana, facendo prima mangiare nostra figlia malata». La bimba, prima dell’invasione israeliana, riusciva a camminare e a parlare. Poi ha smesso. Non si nutriva abbastanza «e credo che anche il terrore delle bombe l’abbia fatta peggiorare», racconta il padre. Negli ultimi due anni hanno scoperto la fame e anche la sete. «L’acqua che si trova puzza ed è salata», racconta Abdalrahim.

Lui, essendo infermiere, non aveva mai smesso di lavorare. Ovunque si spostasse, dava una mano. A fare vaccini, quando disponibili, a recuperare morti e feriti sotto la macerie. Scorrendo la galleria delle foto e dei video sul suo telefono, si viaggia nella sua storia e in quella di Gaza. Dal matrimonio, 4 anni fa, ai viaggi, le strade curate, i bei palazzi, le feste, la famiglia, i bimbi felici, i regali. Poi le macerie, i cadaveri, i bimbi che piangono, i morti ammazzati in coda per il pane, le barelle, uomini che urlano, lui in un ospedale con in mano un braccio mozzato di chissà chi. E mai fermarsi, nemmeno il tempo di avere paura. «Quando ero a Gaza, lavoravo 24 ore di fila, poi mi fermavo un giorno e ripartivo altre 24 ore – racconta Abdalrahim -, ma riuscivo a dormire, anche con il rumore delle bombe. Toccavo il letto e dormivo profondamente. Da quando sono in Italia, non ci riesco più. Chiudo gli occhi e rivedo tutto. Il sangue, i cadaveri, i pianti, la disperazione, la fame».

La paura è un lusso che gli adulti non possono permettersi a Gaza. «Io a volte speravo di morire, piuttosto che vivere così. Speravo solo di non sopravvivere ai miei figli e a mio marito», racconta Malak che ha perso la madre, morta sotto una bomba in strada, gli zii e le cugine. Suo marito invece ha perso la sorella, il cognato, i nipoti, tutti ammazzati in casa durante il pranzo.

Parlano dei bombardamenti ma anche di «vere e proprie esecuzioni», dice l’infermiere di 28 anni. Anche, o soprattutto, di giornalisti. «Non vogliono che raccontino quello che succede- continua-. Diversi giornalisti sono stati uccisi dagli israeliani in ospedali dove erano ricoverati per alcune ferite. Loro entrano, li cercano, li uccidono e se ne vanno. Dicono che sono affiliati ad Hamas per giustificare i loro assassinii, ma non lo sono. Sono giornalisti liberi che stanno cercando di raccontare al mondo quello che succede. Non guardano in faccia a nessuno. Nemmeno ai medici che dovrebbero essere rispettati e tutelati».

La consapevolezza della difficoltà di tornare

Di tornare a Gaza quando le bimbe si riprenderanno, non se ne parla proprio. Sicuramente non ora, almeno. Dove andranno, non lo sanno ancora. «A Gaza non abbiamo più niente – spiega Malak – e non posso riportare i miei figli in quell’inferno. Non posso costringere i miei figli a continuare a vedere cadavere e soldati che ammazzano persone davanti a loro. Voglio che crescano nella pace e lì, la pace, adesso, non c’è». 

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