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L’intervista

Violenza sulle donne, Monica Guerritore: «Guarire dal narcisismo e imparare dai no, questo devono fare gli uomini»

di Sabrina Carollo

	Monica Guerritore
Monica Guerritore

Guerritore porta in scena un femminicidio del 1911: una storia attuale

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Monica Guerritore, non è solo una donna bellissima: ha il magnetismo raro di quelle persone che sanno coniugare la propria fisicità con una visione profonda delle cose e una cultura molto vasta. Quelle donne capaci di grande consapevolezza, che attraversano la vita con volontà e determinazione. In scena ieri al teatro Goldoni di Firenze per La Toscana delle Donne, l’artista ha parlato della performance “Quel che so di lei – Donne prigioniere di amori straordinari” – ma anche della situazione attuale del mondo femminile, del patriarcato negato e delle posizioni che è necessario prendere.

Guerritore, come nasce questa lettura drammatizzata?

«Umberto Tirelli, il costumista di Strehler e di Visconti, raccontò come, mentre girava il Gattopardo, il regista si fosse imbattuto nella tragica figura di Giulia Trigona, cognata del padre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nel 1908 la Trigona riceve una lettera anonima in cui si dice che il marito, che lei amava moltissimo, la tradisce in modo plateale: tre anni più tardi la ritroviamo uccisa con 27 coltellate in una pensionaccia accanto alla stazione Termini. Incuriosita, ho cominciato a studiare gli atti del processo e ho scritto una sceneggiatura che Camilleri ha molto apprezzato, spiegandomi che quando a casa sua si parlava di lei, “le donne abbassavano la voce”, tale era lo scandalo. Malgrado il suo incoraggiamento, non sono riuscita a farne un film, così ho scritto un libro per Longanesi».

Porta in scena uno dei primi femminicidi.

«La trama poggia sulle sette stanze che precedono la fatidica otto dove è stata uccisa: un lungo corridoio che lei percorre il 2 marzo del 1911. In ogni stanza c’è uno snodo sentimentale che la porta a consegnarsi al suo assassino. Nella prima stanza c’è il tradimento del marito, poi la perdita dell’infanzia felice, nella terza il desiderio del corpo, l’eros disordinato in cui l’amante la trascina e in cui lei riprende fuoco, carne, calore come nella Lupa. Quindi il passaggio all’essere usata da quest’uomo violento, rappresentato dalla Contessina Giulia di Strindberg; nella quinta la ricerca inquieta dell’amore di Madame Bovary. Fino alla sesta in cui lei dice no, come Carmen, come Oriana Fallaci, donne forti che pagano la propria opposizione. Ed è proprio quando lei si sente forte e ha ritrovato la sua calma – quella sensazione in cui tutte si trovano quando escono da un amore così negativo – che commette l’imprudenza: lui le chiede di rivederla e lei, al suo avvocato che le dice di non andare, risponde “non si preoccupi avvocato: mi ha amata non mi farà del male”. Ma è un’idea di amore letterario quattrocentesco, quando le donne e gli uomini non avevano nessun rapporto, si vedevano da lontano, c’era distanza».

Come si esce da questa situazione?

«Gli uomini più grandi devono guarire una ferita narcisistica e culturale, i più giovani devono imparare a sopportare i no. Noi possiamo aiutarli: siamo abituate ai divieti, a sopportare il dolore. Sappiamo contenere la sofferenza, dobbiamo spiegare loro che non è la fine del mondo».

Di recente il ministro Valditara ha negato che esista il patriarcato.

«Culturalmente il patriarcato si sposa con fascismo e anche quando si parla di fascismo dicono che non esiste. Invece c’è, legato all’idea di pater familias, di potere sul nucleo familiare. Nei giovani maschi invece la questione non è culturale quanto piuttosto legata a un impulso sessuale, penetrativo: vanno educati al rispetto, al fatto che prendere una donna – che ci deve essere nella relazione, altrimenti smarriscono la propria identità – non significa possederla. Quando si allontana devono accettare di soffrire. Forse un allenamento da piccoli a qualche no, come succede da sempre a noi, aiuterebbe. Tutto questo ha bisogno di essere raccontato: nelle scuole, attraverso opere di letteratura, teatro, cinema, senza puntare il dito».

Come ha preparato le sue due figlie a questa realtà?

«Non ho voluto spaventarle, ma ho cercato di dare un po’ di leggerezza a quei sentimenti che quando si è giovani sono sempre molto potenti. Ironizzare, dando il giusto nome alle cose – se non ti cerca è perché non gli va, non perché ha paura di innamorarsi -. Però una volta che Maria, la mia più grande, aveva lasciato un ragazzo inquieto, non l’ho fatta scendere per parlargli, ho fatto salire lui».

Le madri proteggono le figlie, e i padri?

«Il loro lavoro sarebbe fondamentale. Dovrebbero spiegare alle figlie le caratteristiche maschili, far capire loro con chi hanno a che fare e cosa sentono. Troppo spesso le ragazze sono fiduciose, mentre esistono pulsioni cupe. I Greci il male assoluto lo mettevano in scena, come in Medea – che avrebbe bisogno di silenzio in sala, e non applausi -. L’amore non esclude il male, che è insito nell’uomo, se non è capace di contenerlo, come dice Florio dell’assassino della Trigona: “Era un uomo arrogante, privo di carattere e senza nessuna educazione al contenimento”».

Su Netflix, in Inganno, lei interpreta una donna che ha una relazione con un uomo più giovane, un altro dei tabù femminili.

«Tutte le donne sentono questo problema dell’età, di un pezzo di vita che non è raccontato e che invece qui viene spiegato, è liberatorio. Un periodo in cui cuore e corpo bruciano ancora. Siamo usciti dalla preistoria: se per la natura la donna che non può più concepire viene messa da parte, la nostra cultura può aiutarci a capire bene cosa siamo in questi anni. È importante che Netflix lasci spazio anche questo tipo di narrazioni».

Ha ricevuto il Pegaso della Toscana delle Donne, festival ideato dalla capo di gabinetto della Regione Toscana Cristina Manetti.

«Mi fa molto piacere perché è un riconoscimento al mio coraggio nel contribuire al cambio di mentalità necessario a contrastare la violenza sulle donne. Alla mia autenticità e coerenza. E penso rispecchi l’amore che ho per Firenze».


 

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