Livorno, i primi cento anni della cantina del Venezia: il gozzo rosso che sfidò il regime
La festa nella storica sede. Qui "nacquero" anche alcuni Scarronzoni: «Ci chiamavano l’armo dell’Eca, perché eravamo secchi e affamati»
LIVORNO. Anno domini 1924, 28 settembre: nasce la cantina del Venezia. Cent’anni e non sentirli, una storia, una corsa a suon di colpi di remo consumata nel rione in tempi in cui Livorno era di un’altra pasta. Uomini grezzi, forti e generosi. Portuali, in gran parte, vanto dell’armo degli Scarronzoni, solo doppio argento olimpico fra Berlino e Los Angeles, perché la barca era nettamente più pesante delle altre. Bei tempi, sì, ma un propellente per alimentare la passione, intatta, che c’è ancora. E che oggi riempirà i locali di casa, in mezzo a vecchie foto, coppe e remoergometri, con una grande festa che avrà il suo apice col pranzo e il saluto del presidente, Dino Lorenzini.
La tana rosso-bianca e lo spirito che ancora vi si respira rappresentano la custodia dei valori e del rispetto che trasformano i ragazzi che vi entrano in uomini. Gigi Suardi e Emiliano Fanelli sono due memorie storiche. Canottiere e poi timoniere il primo, tifoso da sempre e dirigente, il secondo.
Il gozzo tutto rosso
Faccia scavata, classe’39, Suardi racconta: «La sezione è nata in tempi in cui questi posti erano ritrovo di calafati, pescatori, portuali. Gente aitante e robusta, nata per la voga. Sfide tra di loro, che finivano con ribotte al Molo Novo. Poi, un assetto più organizzato e la trasformazione in associazioni. Noi ci si chiamava Caprera. E cominciarono le prime gare, sulle canoe, fino ad arrivare all’esplosione dei gozzi. Si era negli anni Venti, i veneziani erano tutti di sinistra e quando buttarono in mare la barca, tutta rossa, a qualcuno vennero gli occhi fuori dalle orbite. Un affronto, per l’epoca». E fu così che fu aggiunta una striscia bianca per “alleggerire” la situazione. Nacque l’armo rosso-bianco. Fu vinto un primo palio, Venezia arrivava fino al ponte di Santa Trinità, dopo c’era San Giovanni, e a volte si facevano equipaggi misti fra sangiovannini e veneziani, vincendo ancora qualche bella pugna sia nel quattro che nei dieci remi. C’era Renato Barbieri detto Attao, Mario Ballerini, il Ballero, e poi il Bracci. Gente al sapor di salmastro che assieme agli altri, magnifici “der Venezia” e non solo, seppero vestire con onore la canotta azzurra e chiamarsi tutti insieme Scarronzoni, delizia dello stesso presidente del Coni Malagò, che da buon storico, ha ricordato una volta le bastonate in senso sportivo, prese da quelli della Canottieri Aniene, società in cui si è formato come dirigente.
I figli dell’Eca
Dopo la guerra, c’era da ricostruire un tessuto sociale intero. Macerie ovunque, ma tanta voglia di tornare alla normalità. Negli anni Cinquanta nacque il Palio come lo conosciamo noi. Ma contava, per poter salire in barca, essere residenti nel rione. Una regola applicata e poi no, in più periodi. Non più in vigore ormai con gli anni Ottanta. Poco prima, nel 1973, furono anche rinnovati i gozzi: stessa lunghezza, stessa larghezza, ma i remi non erano tutti uguali. Il fuori scarmo era diverso a poppa e a prua. Fu tutto uniformato, forza della palata uguale per tutti i vogatori. Suardi entrò ufficialmente in cantina nel 1958: «Ci chiamavano il gozzo dell’Eca, perché eravamo secchi, avevamo parecchia fame». Studiava all’Iti, preparava la maturità e arrivò Oscare Savi, capovoga, per farlo cominciare allenare. Come riserva. Via via qualche uscita se mancava qualcuno, ma titolare al Palio, vincendolo. Ne ha vinti 5 remando, e sei da timoniere, e due Barontini più quattro. Ricorda volentieri Umberto Marconcini, “uccellino”: «Metteva la bici a prua, si andava al Molo Novo, lui scendeva e faceva su e giù sulla curvilinea seguendo l’allenamento. Ci dava da bere sulla scalinata, e poi, scherzando, diceva avviatevi, io vi raggiungo a pedali». E poi, quando non riuscivano a simulare una partenza forte per la Barontini. «Un giorno, si arriva in piazza Manini e c’erano campanelle di ferro sulle bozze di pietra. Lega il gozzo a poppa infischiandosene del rischio di danneggiare la barca. Facemmo talmente bene, che la partenza fulminea alla Barontini, ci valse la vittoria».
Un altro ricordo, era il 1974. «Cominciai ad andare al timone. Ma si facevano tempi superiori ad altri. A pochi giorni dal Palio eravamo sgonfi, i dirigenti non contenti. Mi sento suonare a casa e mi fu imposto di fare il capovoga. E al timone, andò Savi. Si fece la simulazione e abbassammo sensibilmente senza durare fatica. Sembrava di volare. Arriviamo al Palio e rifilammo 14” a chi inseguiva».
Prova a pensare alle differenze fra il Palio di prima rispetto a oggi. «La preparazione. Ci si allenava quattro o cinque giorni la settimana da aprile, un’oretta, e la gara c’era per ferragosto. Con la Risiatori, tutto è mutato. Più scienza, più metodo. I primi tre anni era dominio del Borgo e noi ci si chiedeva perché. Sotto la pergola Scanzio Vivaldi, ex scarronzone, disse che loro si preparavano tutto l’inverno, andando anche a correre. Facemmo così anche noi. E fu così che rompemmo l’egemonia bianconera».
Le patate in Borgo
Fanelli, è nato in via Bandi, al Gigante «ma il mi babbo Dino e i suoi fratelli stavano qui e io da piccino mangiavo pane e Venezia. Anche se stavo sul Pontino. Ricordo Pecchio, Cammello e Rossano Lorenzini, Nedo Suardi, Ivo Baldi, Italo Baccigalupo, Elio Neri detto saponata perché si lavava fisso. Ho vissuto l’epoca d’oro degli sfottò, ho fatto mercato cercando vogatori. E il Palio del 1979 quando in Borgo dicevano di essere la bistecca e gli altri il contorno. Vincemmo noi e quella sera, fra patate fritte fatte in casa e comprate nelle rosticcerie, si riempì le strade di Borgo, durante il corteo con macchine e motorini, di patate. Eravamo all’altezza della ferramenta Turchi. Ci fu anche un po’di parapiglia».
Ma cita, come attaccamento al rione, Sergio Brogi, che il giorno del Palio del 1974, sposava. Mangiò leggero, perché voleva partecipare. Il babbo, detto Norge, aveva una barca grossa, e a largo montò parte degli invitati, sposa compresa. Il Venezia arrivò primo con questa ragazza di bianco vestita, in lacrime per la gioia. Fu festa doppia». E si conclude, con quella volta che, siccome il trionfo mancava da tempo, fu deciso di portare il gozzo da padre Lorenzo, dentro la chiesa di Crocetta. Troppo grossa, non entrava dall’uscio, e un dirigente, imprecando, pronunciò una bestemmia. Il parroco con le mani nei capelli, davanti all’imbarazzo generale.
Suardi e Fanelli provano a riassumere questi cento anni di tradizione custodita gelosamente: «Tante discussioni, ma con un solo obiettivo. Il bene comune, tramandando la cultura marinara e portuale cercando di portare avanti aggregazione, voglia di vincere e rispetto per gli avversari». l