Il disastro
«La fuga mi salvò dallo sterminio». La prof Giuliana Menasci di Livorno si racconta agli studenti
La testimonianza della sua tragica infanzia: «Quando tornai, la città era distrutta»
LIVORNO «Sono ebrea, e sono nata a febbraio 1938, poco prima delle leggi razziali». Si presenta Giuliana Menasci, davanti agli studenti delle scuole medie Bartolena, Benci, Borsi, Brin e Micali, in occasione della Giornata della Memoria. A causa delle leggi razziali, gli ebrei vennero esclusi dagli uffici e dalle cariche pubbliche.
Questa sorte toccò anche alla famiglia Menasci, come lei stessa racconta. Non solo davanti alle alunne e agli alunni, ma anche alla presenza, tra gli altri, del sindaco di Livorno Luca Salvetti, del prefetto di Livorno Paolo D’Attilio, del dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale Andrea Simonetti e del presidente della Comunità ebraica livornese Vittorio Mosseri. «Mio zio era provveditore agli studi, e quando gli ebrei furono cacciati da Mussolini, mise su una scuola privata in via Micali per accogliere i ragazzi esclusi dalle scuole pubbliche», si rivolge ai ragazzi Menasci rivivendo la sua infanzia.
La persecuzione contro gli ebrei si intensificò soprattutto dopo l’armistizio 1943. «Dopo essere stati sfollati, chi stava in città si spostò nelle campagne. Con i miei nonni e i miei genitori ci trasferimmo in provincia di Lucca, dove non c’erano i bombardamenti». Ma la famiglia Menasci non rimane molto tempo nel Lucchese. «Una sera venne il figlio del segretario federale (dirigente di una federazione fascista, ndr), che era amico di mio padre, e ci disse che saremmo dovuti scappare subito perché sarebbero venuti a prenderci. Così ci incamminammo a piedi verso la stazione di Lucca, di notte, per andare a Milano, di dove mio padre era originario». Ma neanche in Lombardia si poteva vivere in sicurezza: il padre di Menasci quindi pagò duecentomila lire per portare tutta la sua famiglia in Svizzera, stato neutrale. «Mentre attraversavamo il Lago di Como mia madre ricordava Manzoni. Prima di entrare in Svizzera passammo anche vicino a una caserma dei tedeschi, che per fortuna non ci videro».
Arrivati nello stato elvetico i Menasci ricevettero un libretto utile per dimostrare di essere dei rifugiati. E quel libretto Giuliana Menasci lo conserva ancora oggi, e lo rende testimone della sua difficile infanzia. Non tutti nella famiglia riuscirono a salvarsi però: «Finita la guerra tornammo a Livorno, letteralmente attaccati ad un camion, e ritrovammo i nonni a Lucca –continua la testimone-. Ma il fratello maggiore del mio babbo, Robertino detto Tino, era stato preso. Mio padre non ha mai saputo che fine ha fatto. Io l’ho scoperto solo anni dopo, su internet. Morto ad Auschwitz nell’aprile del 1944. Era lì dal novembre del 43».
Dopo il tragico ricordo, Menasci conclude con un sorriso: «Quando tornai Livorno era distrutta, ma la gente aveva voglia di ripartire. Poi c’erano gli americani, a cui sono grata. Mi ricordo che una volta uno scese dalla jeep emi accompagnò a prendere un gelato». l