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La sentenza

Livorno, condannato a 15 anni di carcere per aver ucciso il padre a coltellate. Il movente e le parole della mamma

Livorno, condannato a 15 anni di carcere per aver ucciso il padre a coltellate. Il movente e le parole della mamma

Il ventiquattrenne Banti, a fine pena, sarà ricoverato tre anni in una struttura. Il tribunale ha riconosciuto un vizio parziale di mente al momento dell’omicidio. Il babbo imprenditore colpito a morte sotto l’ascella sinistra

23 aprile 2024
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LIVORNO. È stato condannato a 15 anni di reclusione per aver ucciso il padre con una coltellata. È stato riconosciuto un vizio parziale di mente al ventitreenne Leonardo Banti, il giovane che nella notte fra il 2 e il 3 febbraio di un anno fa ha tolto la vita al babbo cinquantasettenne Fabrizio Banti, ex socio della Baracchina bianca e in passato vicepresidente del circolo “Off Side” di Ospedaletto, a Pisa, dopo una lite avvenuta cinque ore prima nel loro appartamento di via Paganini, nel quartiere di Colline.

La sentenza

È bastata poco più di un’ora di camera di consiglio al presidente della corte d’assise, Luciano Costantini, per decidere la colpevolezza dell’imputato insieme al collega Ottavio Mosti e ai sei giudici popolari. In realtà, su chi fosse il responsabile del delitto, non c’è mai stato alcun dubbio. L’incertezza verteva solo sulla capacità di intendere e di volere del ventiquattrenne al momento della tragedia, dato che il consulente del pubblico ministero Niccolò Volpe, Rolando Paterniti, al contrario del collega incaricato per lo stesso esame medico-legale dall’avvocata Barbara Luceri, Enrico Malotti, riteneva che quando avesse ucciso il padre Banti fosse lucido. La corte d’assise, per disporre di un ulteriore parere, ha quindi nominato un proprio consulente, il dottor Massimo Marchi, che per il giovane ha ravvisato un «disturbo schizoide della personalità con elementi interpretativi abnormi», ritenendolo allo stesso tempo «socialmente pericoloso e bisognoso di cure». Per questo, a fine pena, dovrà trascorrere tre anni in una Rems, una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Il tribunale ha inoltre reso il giovane indegno della successione del padre, interdendolo in perpetuo dai pubblici uffici.

La richiesta del pm

Il pm titolare dell’inchiesta, Niccolò Volpe, per il giovane aveva chiesto 16 anni di reclusione, ritenendo ammissibile la concessione di uno sconto della pena in virtù della giovane età (le cosiddette attenuanti generiche), ma non riconoscendo il vizio parziale di mente a causa delle modalità dell’omicidio, avvenuto dopo cinque ore dalla lite scoppiata in casa con il babbo. Fabrizio Banti, quella notte, venne colpito dal fendente mortale sotto l’ascella sinistra mentre si trovava sul letto e poi, con un’altra coltellata, alla gola, quest’ultimo probabilmente mentre il figlio stava riportando a sé l’arma bianca. Dopodiché, in fuga dall’abitazione, ha chiamato un amico, il quale ha subito avvertito il 112, con un carabiniere della centrale operativa di viale Fabbricotti che è riuscito a salvare Banti dalle intenzioni suicide (si era tagliato pure le vene, nel frattempo) scoprendo che si trovava nei giardinetti di via Torino.

Le testimonianze

«Ho ucciso mio babbo con una sola pugnalata e poi volevo togliermi la vita e fare il testamento», furono le parole del ventiquattrenne al 112, raccontate in aula dallo stesso militare dell’Arma che era riuscito, in quei drammatici istanti dopo l’omicidio e prima del fermo, a mettersi in contatti con il giovane. «Quando gli ho domandato il motivo mi ha spiegato che lui (il padre, Fabrizio Banti, ndr) gli aveva detto che doveva andare via, che non poteva più stare lì, che doveva allontanarsi», queste invece le parole pronunciate in aula dalla madre di Leonardo, Annalisa Lorenzini, ascoltata dalla corte d’assise sempre in veste di testimone. La donna, già nei giorni successivi alla tragedia, ha sempre difeso il figlio, con cui non conviveva in quanto era da tempo separata dalla vittima.

La ricostruzione

Nel corso delle indagini al pubblico ministero Banti aveva raccontato di essere vessato dal padre, che lo insultava anche dicendogli «Sei un ciccione». Umiliandolo, a suo avviso. Così come avvenuto il pomeriggio prima della tragedia. Il movente risiederebbe quindi sia nella presunta volontà del babbo di allontanarlo da casa, sia nelle vessazioni che il giovane avrebbe subito nel tempo. «La sua alterazione funzionale – le parole dello psichiatra Malotti ai giudici – non sta nel non essere in grado di elaborare il progetto di omicidio-suicidio (quest’ultimo fallito ndr), ma nel perché dopo un evento di questo tipo scatta un comportamento che rappresenta, pur nella sua concretezza, un’espressione della sofferenza che non gli consente di gestire diversamente le cose, nella quale l’aspetto emotivo e passionale viene assorbito. La sua libertà di agire è stata compromessa dalla condizione psicologica di partenza, aggravata da questa specifica circostanza. C’è una distorsione sul piano cognitivo, una sua reazione che è spropositata». 

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