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La storia

Roberto Barni, da contadino a grande artista: le sue opere anche alla Tate Gallery di Londra e al Queens Museum di New York

di Sabrina Carollo

	L'opera "I servi muti"
L'opera "I servi muti"

Nato nel 1939 nella campagna pistoiese, frequenta la scuola di perito agrario. Poi il trasferimento a Firenze: come è arrivato ad avere fama internazionale e quali sono le sue opere più note e

22 aprile 2024
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Un fiore nato tra le pieghe dell’asfalto. La storia di Roberto Barni, artista di fama internazionale, le cui opere sono visibili in musei come gli Uffizi, la Tate Gallery di Londra, il Queens Museum di New York solo per citarne alcuni, è decisamente inusuale e parla il linguaggio misterioso della vita stessa. «Sono spuntato da me stesso», dice Barni, che nasce nel 1939 nella campagna pistoiese da genitori contadini che mai si sarebbero immaginati per il proprio figlio un percorso così inusuale: ultimo nato dopo diversi anni di distanza dai primi, un fratello e tre sorelle, Roberto da subito mostra una grande passione per il disegno, unita a un’intelligenza e una curiosità molto particolari.

In realtà il babbo, che suona il clarone nella banda Borgognoni di Pistoia probabilmente qualche seme di creatività lo instilla in questo figlio dalle «ambizioni celesti», mentre la madre, una donna intelligente e sensibile - «chiamava le sculture “persone fisse”, un’idea bellissima» - gli insegna ad amare la natura che lo circonda e a cogliere la bellezza dei luoghi in cui cresce.

Durante gli anni delle superiori, mentre frequenta svogliatamente la scuola di perito agrario, passa il tempo a disegnare sulle pagine dei libri, facendo arrabbiare i professori: «Sentivo che non era quello il mio destino», dichiara. E infatti, appena archiviato il diploma, comincia a dipingere, inizialmente grandi tele materiche monocrome in rosso.

A Pistoia stringe le sue prime amicizie davvero importanti: con il futuro architetto Adolfo Natalini e con l’artista Gianni Ruffi, una autentica fratellanza a tre: «Pur nella nostra diversità, ci legava un sentimento forte», che lo sostenne nel suo fare arte per tutta la vita. Determinato a perseguire la sua vocazione, decide di celebrare la sua attività con un autoscatto che passerà alla storia, una fotografia in cui, novello don Chisciotte, indossa un imbuto come cappello e porta un ombrello aperto a mo’ di scudo: «Un eroe domestico, con una grande visione della vita in una dimensione quotidiana», spiega.

Un slancio del cuore, un entusiasmo che non ebbe immediato riscontro in un mondo in cui l’artista è marginale, e che lo porta, giovane emotivo con una passione eroica per l’arte, a fotografarsi di nuovo un paio d’anni dopo accanto al proprio necrologio: «Michelangelo a 22 anni fece la Pietà e a 25 il David: nel nostro tempo l’artista deve fare uno sforzo enorme per essere riconosciuto».

Tuttavia i suoi dipinti e le due immagini vennero esposte alla celebre galleria fiorentina Numero di Fiamma Vigo, personaggio anticonformista che promuoveva l’arte più innovativa dell’epoca, che Barni aveva conosciuto nel 1961, in occasione di una mostra internazionale d’arte astratta di Pistoia a cui lui aveva partecipato accanto ad alcuni artisti rappresentati dalla gallerista. L’approdo a Firenze gli garantì una diversa visibilità e soprattutto il contatto con personaggi dalla sensibilità affine alla sua, come l’artista Alberto Moretti che lo aiutò a ottenere una borsa di studio di un milione di lire (che per gli anni Sessanta erano davvero tanti), dal Comune di Firenze, che all’epoca sosteneva gli artisti meritevoli; in cambio, Barni donò alcune opere alle collezioni comunali, ora esposte al museo Novecento. Ma soprattutto qui conosce la donna della sua vita, quella che lui definisce la sua Beatrice, Sara Menghetti, germanista che lo colpisce per la sua intelligenza e capacità di amare: «Quando l’ho vista ho pensato “domine non sum dignus”», spiega, ancora l’emozione nella voce nonostante sia passato più di mezzo secolo. Con lei, incontrata nel ‘67 e mai più lasciata, coltiva la sua grande passione per la musica e per la poesia, e cresce una famiglia composta da Selva, fotografa, e Tommaso, architetto.

Il suo lavoro procede, stringe ulteriori amicizie stimolanti, come quella per l’illuminato collezionista Giuliano Gori, che comincia acquistandogli alcuni quadri quando ancora non era un artista affermato e per il quale in seguito realizza la celebre scultura “Servi muti” che accoglie i visitatori all’ingresso della fattoria di Celle: «Ero innamorato di Beckett, e quest’opera è ispirata proprio al suo “Aspettando Godot”, di cui queste figure rappresentano l’attesa straordinaria trasformata in staticità, in un tavolo. Una condizione che riguarda l’uomo», commenta l’artista.

E ancora la collaborazione con Spoerri, per il cui giardino realizza la scultura “Continuo”, omaggio al grande amore di Barni per la musica barocca: «È la traslazione visiva dell’archetto barocco, che va avanti e indietro sulle corde per produrre il suono: le due figure salgono e scendono venendosi incontro, come nel contrappunto di Bach».

Barni esplora ogni mezzo espressivo, anche i libri d’artista, di cui realizza numerose versioni, spesso con collaborazioni illustri - Piero Bigongiari, Andrea Zanzotto, Cesare Mazzonis - poi con direttamente con le sue poesie, piccoli haiku che continua a scrivere. Nel 2013 l’allora direttore degli Uffizi Antonio Natali gli chiede di realizzare una scultura in occasione del ventennale della strage di via dei Georgofili. Invece di un memento alla tristezza, Barni sceglie di celebrare la vita delle persone scomparse nell’attentato, e realizza una grande figura coperta a foglia d’oro, che porta su di sé altri cinque personaggi, per rappresentare la presenza solare delle vittime. Nonostante le mostre in tutto il mondo, Roberto Barni non ha cambiato la propria percezione di sé: «Sono un artista perché ne sento il bisogno, non perché qualcuno lo conferma. Non è il successo a definirci, siamo solo noi a farlo. L’arte che non esiste ci chiama, è come un miracolo, quando creo un’opera ne sono poi il primo fruitore», dichiara. Del resto, per lui l’arte non è semplicemente un lavoro, è un modo di esistere, di creare un mondo migliore. «Voglio solo fare arte, sempre, anche durante una conversazione. Solo noi possiamo creare la realtà: se l’universo esiste è perché noi lo affermiamo», conclude. 

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