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Carabiniere morto a 41 anni: «L’uranio impoverito l’ha ucciso in 40 giorni ma è sempre con noi»

di Maria Meini
Carabiniere morto a 41 anni: «L’uranio impoverito l’ha ucciso in 40 giorni ma è sempre con noi»

Rosignano, Giovanna e il calvario del marito: «Io e mia figlia abbiamo avuto tante difficoltà, ma non ci siamo mai piante addosso». L’incontro con il giornalista Franco Di Mare

01 maggio 2024
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Era il 2000, sono passati 24 anni da quando Pasquale Cinelli, maresciallo maggiore dei carabinieri paracadutisti del reggimento Tuscania di stanza alla caserma Vannucci di Livorno, morì in 40 giorni a 41 anni, portato via da un tumore fulminante. Quasi un quarto di secolo in cui la moglie Giovanna e la figlia Jessica, che aveva 9 anni quando è morto il papà, non hanno mai smesso di lottare per dimostrare che il loro marito e padre era vittima dell’uranio impoverito. Con cui era venuto a contatto durante una missione di peace keeping come servitore dello Stato. Ci hanno messo 16 anni per dimostrare che Cinelli era stato effettivamente ucciso dall’uranio impoverito dopo le missioni in Bosnia e Kosovo. Ma la prima battaglia legale non è stata sufficiente. L’Avvocatura dello stato ha fatto ricorso e ci sono voluti altri tre anni per avere ragione. «24 anni senza papà, 24 anni senza marito, il mio grande amore portato via sotto i miei occhi dalla malattia in poco più di un mese».

Un incubo da cui risvegliarsi per forza. Perché c’è una bambina che frequenta la terza elementare che deve crescere, perché c’è una vita che va avanti, perché «Pasquale ha diritto ad avere giustizia». Racconta Giovanna: «Io e mia figlia abbiamo avuto tante difficoltà, ma non ci siamo mai piante addosso, non siamo depresse perché Pasquale è sempre vicino a noi. Io morirò accanto a lui. Guarda, ti voglio dire una cosa, scrivila: lo Stato ci ha lasciato sole, perché purtroppo i militari vengono usati e quando non c’è più bisogno messi da parte. Sai cosa dice mia figlia? “L’Arma dei carabinieri ce l’ho nel cuore e ce l’avrò sempre nel cuore perché ne faceva parte papà, ma non servirò uno Stato che non riconosce e aiuta i propri servitori”».

Giovanna si accalora. «Se non avessi avuto la mia famiglia non so come avrei potuto vivere dopo la morte di mio marito. Avevo 31 anni, con una bimba di 9 ed ero distrutta dal dolore e dalla rabbia. Anche i colleghi dell’Arma di mio marito ci sono sempre stati vicini e di questo io li ringrazierò sempre».

Giovanna vive a Rosignano dal 1988: è arrivata in provincia di Livorno insieme al marito dalla Calabria, entrambi sono originari di Paola nel Cosentino, quando il maresciallo Cinelli fu assegnato al Tuscania. «Decidemmo di vivere a Rosignano e qui è nata nostra figlia - racconta Giovanna -: eravamo felici fin quando la malattia terribile ha spazzato via la gioia». Ma Giovanna non si è arresa, ha portato avanti una lunga, tenace e dolorosa battaglia per dimostrare che suo marito era morto sul lavoro nell’esercizio della propria missione. Kosovo, Bosnia, Somalia: il maresciallo Cinelli è stato impiegato in tante missioni con il suo corpo scelto. Ed è stato il primo nel Tuscania ad essere riconosciuto come vittima dell’uranio impoverito. «Purtroppo tanti militari e carabinieri come mio marito sono morti a causa della vicinanza con l’uranio impoverito usato nelle armi in alcuni paesi del mondo», dice Giovanna. «Le conseguenze sono state devastanti. Non solo per lui ma anche per le persone che gli stavano vicino. 500 carabinieri paracadutisti si ammalarono alla tiroide dopo alcune missioni».

Giovanna non si è mai arresa: voleva giustizia, dimostrando che il marito si era ammalato durante l’espletamento del proprio dovere. E voleva che le istituzioni lo riconoscessero. Seguita dall’Osservatorio sull’uranio impoverito e dall’avvocato Tartaglia ha intrapreso una battaglia che avrebbe sfinito chiunque, ma non Giovanna. «Sono molto rammaricata - dice oggi - di quello che sta succedendo al giornalista Franco Di Mare. L’ho conosciuto, mi ha intervistato per la mia storia, una bella persona. Gli sta succedendo la stessa cosa che è successa a me e a tanti familiari di militari vittime durante le missioni di pace. Le istituzioni che avrebbero dovuto e che dovrebbero aiutarci si sono allontanate o ci hanno messo i bastoni tra le ruote. Credo che non dobbiamo avere paura di pretendere una giustizia giusta e di chiedere il riconoscimento dell’impegno e del sacrificio dei nostri cari».

Adesso Giovanna aspetta che venga intitolata una strada a suo marito a Rosignano Solvay, la città in cui avevano scelto di vivere e di fare una famiglia e dove Giovanna, con il suo negozio di parrucchiera, ha deciso di rimanere per lavorare e crescere sua figlia. «Me lo hanno promesso due sindaci, adesso è stato pure individuato il luogo: mio marito se lo merita e ce lo meritiamo anche io e Jessica come cittadine di Rosignano».


 

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