Il Tirreno

Toscana

Operazione “Piedi scalzi”

I migranti reclutati dentro il centro di accoglienza, dieci arresti per caporalato in Toscana: le accuse, i nomi e il sistema

di Stefano Taglione
I migranti reclutati dentro il centro di accoglienza, dieci arresti per caporalato in Toscana: le accuse, i nomi e il sistema

La manodopera impiegata in Val di Cornia e Maremma. I braccianti ricevevano paghe da fame, anche 0,97 euro per un’ora di lavoro

29 aprile 2024
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PIOMBINO. «Salve, parlo dal campo delle Caravelle. Ho mandato il numero della mia carta per essere pagato, ma non ho ricevuto nulla. Per favore, mio padre sta aspettando i soldi per mangiare: a casa non ha niente». In un’intercettazione telefonica captata dagli inquirenti c’è tutta la disperazione di un profugo che, pur di lavorare e aiutare i suoi genitori in Bangladesh, aveva accettato una paga da fame. Da vero sfruttamento per la raccolta di olive, ortaggi e per la manutenzione di vigneti nel Livornese e in Maremma. Corrispettivi orari, secondo la procura, bassi fino alla cifra choc di 0,97 euro l’ora, ma più in generale fra i 3 e i 9, sotto la soglia minima individuata, per la provincia di Grosseto, in 10,70 euro.

Perché lui, arrivato in Italia su un barcone e ospitato nel centro di accoglienza piombinese “La Caravella”, per guadagnare qualche spicciolo non poteva fare altro. Come gli altri 66 migranti alloggiati nella struttura di Riotorto.

Le accuse

È con l’accusa di caporalato – il reato è intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro – che prima dell’alba di ieri i carabinieri della Compagnia di Piombino, in collaborazione con i colleghi del nucleo ispettorato del lavoro di Livorno, hanno arrestato otto persone, mentre altre due sono ricercate all’estero, dove si troverebbero in questo momento. Sono sei imprenditori agricoli della Maremma – titolari di altrettante ditte individuali – e quattro intermediari, tutti pachistani e residenti in provincia di Grosseto, tranne uno che abita a Siena. Avrebbero agito «in violazione della normativa sull’orario di lavoro – scrivono i militari dell’Arma – con la sistematica corresponsione di retribuzioni inferiori a quelle minime, senza il versamento di contributi previdenziali e assistenziali, nonché in palese violazione delle normative sulla sicurezza del lavoro, sui riposi e sulle ferie». «Non bisogna fare la pausa, digli che possono prendersi 5-10 minuti di pausa per mangiare», le parole di uno degli indagati che evidenziano, secondo gli inquirenti, uno sfruttamento fuori controllo, con turni lunghi perfino oltre dieci ore e ritardi nei pagamenti di tre mesi, in alcuni casi mai corrisposti.

I nomi

In carcere sono finiti gli imprenditori Naveed Aslam – 46 anni, di Cinigiano, in Maremma – Ikram Muhammad (47 anni, di Massa Marittima), Muhammad Qasim (39 anni, grossetano) e Muhammad Ashraf Mahzooz (44 anni, di Arcidosso, sull’Amiata), oltre ai cosiddetti «intermediari», ovvero il trentenne Azeem Sarwar (residente a Poggibonsi, ma domiciliato a Siena), Usman Munir (ventottenne residente a Grosseto), Sohail Ahmed (stessa età, di Massa Marittima) e Naeem Aslam, trentunenne sempre massetano. La pm titolare dell’inchiesta, Ezia Mancusi, a loro ha disposto il sequestro di 45.306 euro per il mancato versamento degli oneri previdenziali e assistenziali: 13.134 a Qasim, 2.377 ad Aslam, 1.726 a Muhammad, 1.278 ad Ashraf Mahzooz, mentre gli altri 26.791 ai due imprenditori che non sono stati ancora individuati. 

Il sistema

Gli imprenditori, fra il maggio del 2023 e il febbraio scorso, si sarebbero serviti di alcuni intermediari e di ospiti del centro di accoglienza – a loro volta lavoratori e dagli inquirenti considerati vittime – per reperire ogni giorno la manodopera necessaria per svolgere i lavori nei campi. Si occupavano anche del trasporto, alle 5 di mattina, e del ritorno la sera, a volte anche alle 22. I migranti venivano prelevati, fuori dal centro, sui furgoni (dei Fiat Ducato o dei Ford Transit), ma anche su auto come Renault Espace od Opel Zafira. I mezzi partivano alla volta dei terreni agricoli a Castiglione della Pescaia (in località Ponte di Badia o alla Macchiascandona), Massa Marittima (alla Valpiana), Campiglia Marittima, Suvereto (località Bagnarello) e Gavorrano. I dispositivi di protezione personale erano a carico dei braccianti, in alcuni casi nemmeno sotto contratto. C’era chi se li comprava da solo – «Ho acquistato io un paio di scarpe da un negozio di cinesi di Follonica», confermerà un ragazzo ai carabinieri – o chi si vedeva trattenuti, dalla prima busta paga, 30 euro. In un’intercettazione si sente una persona parlare di «raccolte a piedi scalzi», da qui il nome dell’operazione “Piedi scalzi”. «I proprietari dei terreni – spiega il comandante provinciale dei carabinieri di Livorno, il colonnello Piercarmine Sica – risultano estranei alla vicenda, così come i responsabili del centro di accoglienza. L’indagine è partita dai furgoni notati dai militari fuori dalla struttura di Riotorto».

La disperazione

Pur di lavorare, i braccianti, erano disposti a tutto. Giovani, ma anche quarantenni, arrivati dal Bangladesh o dal Pakistan. Persone che hanno investito i risparmi di una vita per raggiungere l’Italia ed essere trattati come schiavi. «Mio babbo vende la frutta in Bangladesh e il suo guadagno non è sufficiente per sfamare la famiglia. Ha venduto un terreno per 15.000 euro, soldi che mi sono serviti per raggiungere l’Italia. Ci ho messo 11 mesi, quasi tutti trascorsi in Libia, dove ho pagato 15.000 euro alla mafia locale», le parole di uno di loro. I soldi, in Asia, dovevano arrivare presto. Perché la miseria è totale: «Devo andare a lavorare per inviare i soldi ai miei genitori e a tre fratelli – a parlare è un altro profugo – Sono malati e non possono lavorare. Da quando sono arrivato in Italia, circa un anno e mezzo fa, ho inviato alcune migliaia di euro attraverso “Moneygram”». Orari senza limite, pur di incassare. Come conferma il giudice per le indagini preliminari Antonio Del Forno, che ha accolto la richiesta degli arresti del pubblico ministero per il pericolo di fuga degli indagati: «Anche i lavoratori contrattualizzati erano costantemente impiegati per molte più ore rispetto a quante ne risultano dalle buste paga», scrive infatti il gip.

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